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domenica 20 febbraio 2011

L'ALGERIA TRA EFFETTO DOMINO E ISTERIA MEDIATICA

Sabato 12 febbraio si è tenuta ad Algeri una marcia di protesta contro il governo di Abdelaziz Bouteflika, presidente dell’Algeria dal 1999. La manifestazione è stata organizzata da un ampio numero di raggruppamenti sociali: sindacati, associazioni di studenti, organizzazioni a tutela dei diritti dell’uomo e partiti d’opposizione, tra cui l’influente Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia guidato dal berbero Said Sadi, sono scesi in piazza per reclamare democrazia e libertà. Le rivendicazioni di questi gruppi riguardano in particolare l’abolizione dello stato di emergenza vigente dal 1992, cioè dall’inizio della guerra civile che ha insanguinato l’Algeria per circa 10 anni provocando più di 150.000 vittime. A ciò si accompagna la richiesta di un ricambio generazionale tra le fila del governo e di una maggiore inclusione dei partiti d’opposizione nella vita politica del paese.

            Risulta impossibile fornire stime attendibili sull’adesione alla marcia sia perché è mancata una copertura mediatica degna di nota, sia perché la partecipazione della popolazione è stata del tutto contenuta. Ciò è stato riconosciuto non solo dai media algerini ufficiali, filo-presidenziali, ma anche da quelli potenzialmente ostili all’amministrazione di Bouteflika. Ad esempio, il giornale online Depeche Kabylie, berbero, dunque tendenzialmente contrario al governo, ha definito la marcia un non-evento.[1] Se è vero che da un lato la marcia era stata già annunciata da diverse settimane e che ciò ha consentito al governo di prendere tutte le contromisure del caso, dall’altro effettivamente gli algerini hanno reagito tiepidamente all’invito a manifestare. Certo il blocco di molti treni che portano alla capitale, la chiusura di diversi quartieri e il dispiegamento di circa 25.000 unità pronte a sedare sul nascere ogni tentativo di destabilizzazione non hanno agevolato la manifestazione. Ma al di là di queste contromisure resta l’impressione che il popolo algerino abbia voluto consapevolmente fare un passo indietro: in altre parole gli algerini, a differenza di tunisini ed egiziani, hanno volontariamente evitato che si creassero contrasti irreversibili con l’élite al potere.

            Al di là della manifestazione in sé vale la pena di commentare la copertura che le è stata offerta da parte dei principali mezzi di comunicazione. E’ interessante notare che, nonostante il suo parziale fallimento, la marcia è stata descritta con toni sensazionalistici da buona parte dei media italiani e internazionali.[2] Questo non può che stupire se si considera che in Algeria non sta accadendo niente di paragonabile a quanto verificatosi di recente in Tunisia ed Egitto.  

L’impressione è che si sia cercato di cavalcare l’onda del clamore destato dalle vicende egiziane – il giorno prima Mubarak aveva annunciato le sue dimissioni - per allargare l’attenzione, dunque la richiesta di informazioni da parte degli utenti, anche ad altri teatri, tra cui quello algerino.
           
Gli esempi a suffragio di questa ipotesi sono numerosi: citiamo i lavori svolti da una celebre società radiotelevisiva e da un noto settimanale, entrambi britannici.[3][4] Essi si sono prodigati nell’elaborazione di modelli la cui pretesa è quella di indicare quali saranno i prossimi paesi del mondo arabo a vivere rivoluzioni simili a quella tunisina ed egiziana. Ogni paese è stato classificato in base ai dati attinenti alla percentuale di giovani nella popolazione totale, alla diffusione di internet, alla durata del regime attualmente al potere e così via; in base a tali valori, che vorrebbero rappresentare dei criteri per la determinazione del grado di instabilità dei vari contesti sociopolitici, è stata stilata una classifica che ordina i paesi in base alla probabilità che in essi si verifichi una rivoluzione.

            Questi prodotti giornalistici rappresentano solo alcuni dei sintomi della patologia che sta affliggendo l’approccio dell’opinione pubblica occidentale rispetto alle rivoluzioni in atto nel mondo arabo: pare di assistere al diffondersi di una rara specie di isteria mediatica, a un’epidemia di ansia da notizia. Giornali e canali televisivi – denotando tra l’altro una certa insensibilità rispetto al fatto che le rivolte comportano inevitabilmente un alto spargimento di sangue - sembrano provare un certo piacere nel prodursi in elucubrazioni su quali saranno i prossimi regimi a cadere sotto la scure dell’effetto domino. Si tratta di un piacere senza scrupoli, dato che le notizie vengono gonfiate ad arte, tanto da assumere dimensioni del tutto distanti da quelle reali: la manifestazione tenutasi il 12 febbraio ad Algeri è stata fatta passare per una svolta nella storia dell’Algeria mentre non rappresenta che un evento tutto sommato privo di conseguenze, tanto che già il giorno seguente il paese era tornato alla normalità.

Nell’analizzare le rivolte che si stanno registrando in alcuni paesi arabi si è ricorso abbondantemente al concetto di effetto domino, che indica una reazione a catena lineare che si verifica quando un piccolo cambiamento è in grado di produrre a sua volta un altro cambiamento analogo, dando origine ad una sequenza lineare. Perché questo meccanismo si scateni, è indispensabile che vi sia un concatenamento tra le varie tessere del domino: effettivamente esiste un forte legame tra la Rivoluzione del gelsomino tunisina, l’insurrezione di piazza Tahrir al Cairo e le manifestazioni tenutesi ad Amman, Tripoli ed Algeri. I paesi del mondo arabo condividono lingua, religione, tessuto culturale e mezzi di comunicazione: di conseguenza le idee circolano fluidamente da un paese all’altro. Analizzando le statistiche, si osserva che gran parte del mondo arabo si contraddistingue per un’età media molto bassa, alti tassi di disoccupazione e la presenza di élite devote all’autoritarismo.

            Per quanto riguarda l’Algeria, essa ha giocato un ruolo fondamentale nel contesto delle rivolte che stanno scuotendo il mondo arabo: ricorrendo alla metafora dell’effetto domino, si può affermare che questa repubblica nordafricana ha rappresentato la prima tessera che con il suo movimento ha prodotto una reazione a catena negli altri paesi arabi. Infatti a cavallo tra gli ultimi giorni di dicembre e i primi di gennaio Algeri ed altre città sono state teatro di violente proteste: un gran numero di algerini è sceso in piazza per denunciare la disoccupazione dilagante, la mancanza di alloggi, l’improvviso e doloroso aumento del prezzo dei beni di prima necessità e le restrizioni nella libertà di parola. Questa sfida aperta all’autorità del governo è stata poi imitata in vari altri paesi.

            Ciò non deve portare all’erronea e frettolosa conclusione che in Algeria si stiano producendo cambiamenti simili a quelli verificatisi in Tunisia ed Egitto. Il ricorso alla metafora dell’effetto domino può essere utile fintantoché si mira a descrivere quella serie di caratteristiche comuni ai vari teatri delle rivolte, ma non deve portare a generalizzazioni: si deve tener conto della specificità di ogni paese. La formulazione di previsioni cui si assiste quotidianamente seguendo i maggiori media pare avere il fine strumentale di fomentare il desiderio di informazione da parte dell’utente: pur di alimentare questo bisogno, non ci si fa scrupolo della veridicità delle notizie emesse. Pertanto le previsioni elaborate assomigliano a delle profezie: hanno cioè un grado di scientificità solo apparente, perché non considerano la storia dei paesi interessati, né tanto meno i meccanismi psicologici in essi operanti. Ci sono aspetti che non possono essere misurati con semplici dati statistici.

            I processi politici non operano meccanicamente. Se per l’analisi politica fosse sufficiente la lettura dei dati demografici ed anagrafici, Bouteflika dovrebbe essere già in esilio e storici e studiosi di scienze politiche farebbero bene a cambiare lavoro. Certamente in Algeria non mancano i fattori di tensione: dalla carenza di abitazioni all’alta disoccupazione giovanile, dalle limitazioni alla libertà di espressione all’alto costo dei generi alimentari, dalla corruzione alla mancanza di rinnovamento politico.

Ma d’altra parte il governo di Bouteflika pare mantenere un certo consenso nell’opinione pubblica algerina. Ciò avviene per una serie di ragioni. Innanzitutto, per quanto riguarda l’emergenza abitativa, gli algerini riconoscono che negli ultimi anni il governo è ricorso a una rilevante spesa pubblica volta alla costruzione di migliaia di nuovi alloggi. Inoltre è sotto gli occhi di tutti che l’approvvigionamento di acqua potabile e di gas raggiunge tutte le case, ciò che non avviene in altri paesi della regione.

In seconda istanza anche l’edilizia pubblica è stata sovvenzionata dal governo. Attualmente gli algerini possono usufruire di un gran numero di scuole, università e centri culturali, ciò che era inimmaginabile fino a qualche anno fa. Anche la rete dei trasporti sta subendo un importante potenziamento.

A differenza di altri paesi del mondo arabo, l’Algeria presenta uno stato sociale molto solido. Gli studenti ad esempio godono di molte agevolazioni: per loro i mezzi di trasporto pubblici sono gratuiti e le case dello studente forniscono posti letto a prezzi molto contenuti.

Per quanto riguarda il conflitto latente tra berberi ed arabi, esso è stato in buona parte risolto allorché, nel 2002, si è concessa la possibilità dell’insegnamento scolastico della lingua berbera, riconosciuta come seconda lingua ufficiale.

Ma il merito maggiore che l’opinione pubblica algerina riconosce al regime di Bouteflika, è, molto semplicemente, quello di aver portato la pace. Come già ricordato, l’Algeria è stata teatro di una sanguinosa guerra civile per più di dieci anni. In seguito alla vittoria elettorale riportata dal Fronte Islamico di Salvezza nel 1991, il paese è stato dilaniato da un lancinante conflitto in cui si sono fronteggiati fondamentalisti islamici da una parte e movimenti politici di ispirazione nazionalista e laicista dall’altra. Omicidi, torture, violenze di ogni genere e attentati terroristici sono stati parte della quotidianità degli algerini per più di dieci anni, lasciando una traccia indelebile nell’immaginario collettivo. L’elezione di Bouteflika nel 1999 ha rappresentato l’ascesa di una figura politica capace di mettere fine nel giro di pochi mesi a queste atrocità.

Quello che l’opinione pubblica tributa al suo presidente è un risultato enorme. Il popolo algerino non si esime certo dal reclamare un miglioramento delle condizioni economiche e una maggiore democratizzazione della vita politica del paese. Ma d’altra parte, memore del grande traguardo raggiunto da Bouteflika, la pace, si guarda bene dal voltare le spalle al suo presidente. Un’analisi politica lucida e onesta del contesto algerino non può prescindere dal valutare questo elemento psicologico.

martedì 8 febbraio 2011

CRONACHE EGIZIANE: la testimonianza di una giovane ragazza egiziana che dal Cairo racconta una rivoluzione destinata a cambiare la storia del Medio Oriente

Quella che segue è una preziosa e toccante testimonianza sulla crisi che sta scuotendo l’Egitto, dove il regime del presidente Hosni Mubarak, al potere da ormai trent’anni, sembra avere i giorni contati. Il valore aggiunto di questo testo, una coinvolgente cronaca delle sommosse arricchita da interessanti considerazioni di carattere politico, è che giunge direttamente dall’Egitto, più precisamente dal Cairo, l’epicentro della rivolta. Altro suo pregio è che si tratta di un reportage scritto da un egiziano, o meglio, da una giovane ragazza egiziana, ex studentessa di scienze politiche ora impiegata nel settore della cooperazione internazionale. Questa giovane cittadina egiziana, fiera del suo popolo insorto contro l’oppressione ma preoccupata per gli sviluppi della crisi in atto, ha sentito l’esigenza di rendere tributo al coraggio dei manifestanti che da settimane sfidano il regime di Mubarak. A tale fine ha deciso di raccontarci la crisi egiziana come da lei percepita durante queste giornate cruciali per le sorti dell’Egitto. TO READ THE ORIGINAL VERSION IN ENGLISH CLICK HERE

Cos'è successo in Egitto?

Il Cairo, 2 febbraio 2011 - Ho deciso di scrivere un reportage su ciò che è successo in Egitto nei giorni scorsi. Questo pezzo sarà un ibrido tra la cronaca e un’analisi personale. Per le mie osservazioni ho attinto da riflessioni provenienti da amici, familiari ed intellettuali. Farò del mio meglio per non risultare troppo emotiva, ma non posso promettere un’assoluta oggettività. E' l'unico contributo che posso portare al mio paese, l'Egitto; le parole sono l'unico strumento a mia disposizione per far conoscere al mondo la verità sulla crisi egiziana. Dunque la grande domanda è: che cos'è successo?

Dopo la Rivoluzione del Gelsomino che ha causato la fuga di Zine El-Abidine Ben Ali dalla Tunisia, si sono verificati, a mio modo di vedere, due eventi significativi: innanzitutto ho notato che la reazione dei miei amici su Facebook era molto intensa, sentita, e del tutto favorevole ai dimostranti; secondo, si sono ripetuti cinque tentativi di auto-immolazione al Cairo (di fronte al parlamento egiziano) e ad Alessandria come forma di protesta contro l’aumento dei prezzi e l’insufficienza dei salari. Nei giorni tra il 20 ed il 24 gennaio 2011 la maggior parte dei miei amici ha cambiato le foto del profilo di Facebook, inserendo la bandiera della Tunisia, segnale allarmante; ciò che è ancora più significativo, ho ricevuto l'invito ad un evento, cioè alle dimostrazioni del 25 gennaio, festa nazionale delle forze di polizia. I creatori dell'evento volevano inviare un segnale di sfida al regime, avvertendolo del fatto che le violenze e le torture di cui era stato recentemente responsabile non li spaventavano; l’oppressione sarebbe stata contrastata, oltre che denunciata globalmente. Ho esitato a lungo sull'opportunità di accettare o meno l'invito, soprattutto perché avevo sentito che le forze di polizia egiziane usano falsi profili su Facebook per cercare di individuare coloro che sono coinvolti in attività politiche ostili al regime. In ogni caso conoscevo un certo numero di coloro che avevano accettato l'invito e molti di questi sono miei amici personali dai tempi del liceo, e lo stesso organizzatore dell'evento era un mio vecchio compagno di classe. Questo mi ha rassicurato sulla credibilità dell'evento, dal momento che partiva da studenti di scienze politiche: non si trattava di qualcosa di avventato.

La crisi

1° giorno: martedì 25 gennaio, il Giorno della rabbia

Fino alla sera di lunedì 24 gennaio tutto scorreva normalmente, e martedì 25 sono stata a casa dato che era un giorno di festa nazionale ed ero del tutto assorbita da questioni familiari. Ma la sera sono venuta a sapere con sorpresa che le proteste erano state di dimensioni del tutto inaspettate, e una mia amica mi ha chiamato per raccontarmi la giornata; era molto sorpresa quando ha appreso che ero rimasta a casa e non avevo partecipato alle manifestazioni.

2° giorno: mercoledì 26 gennaio

Il giorno seguente, mercoledì 26, sono andata a lavorare normalmente e quando ho chiesto informazioni al personale preposto alla sicurezza del mio posto di lavoro mi è stato detto che i dimostranti erano andati a dormire solo alle 3 di mattina. Nel percorso verso il lavoro non ho visto alcuna traccia della manifestazione, e non a caso i miei amici commentavano il fatto che piazza El Tahrir era diversa da come si sarebbe presentata normalmente in seguito alle dimostrazioni che si tengono in un contesto più ordinario. Dicevano che le forze di sicurezza avevano ordinato ai manifestanti di disperdersi ed avevano provveduto a pulire tutto, ma non avevano avuto abbastanza tempo per ripulire i muri dai graffiti (“Abbasso Mubarak” andava per la maggiore). Verso le 15.50 ho notato una certa agitazione e sono rimasta sorpresa nel vedere il presidente del centro dove lavoro prendere la sua valigetta ed andare a casa, dicendoci di fare lo stesso altrimenti il personale addetto alla sicurezza del nostro stabile e del Ministero dell'Interno avrebbe chiuso l’edificio lasciandoci dentro. Così anch'io ho raccolto la mia roba e sono andata al piano di sotto; qui ho trovato gli autobus pronti a caricarci tutti per portarci il più possibile vicino a casa, visto che i dimostranti sarebbero tornati e sarebbero rimasti tutta la notte. Uscendo dal nostro stabile, che è collocato esattamente di fronte al parlamento egiziano e di fianco al palazzo del governo (con solo un grande giardino a separarli), ho visto i poliziotti e le forze di sicurezza speciale del Ministero dell’interno, alcuni di loro erano in abiti civili, altri tenevano in mano dei manganelli (come se fossero preparati per attaccare i manifestanti), circondavano l'area, e la strada era stata deviata in un'altra direzione in modo che non portasse a piazza El Tahrir. Così sono rientrata a casa, e per la strada ho chiamato tutti quelli che conosco per controllare come stavano, per dir loro di evitare il centro, e di andare a casa direttamente perché ci sarebbe stato un altro giorno di sommosse; comunque, fino a quel punto l'atmosfera generale non dava quei segni di pericolo che avremmo visto nei giorni successivi.

Le dimostrazioni violente non sono un fatto inusuale per chi vive al Cairo, ma quest’ultima, per durata e dimensioni, rappresenta qualcosa di nuovo, e credo sia innegabile il legame con le rivolte tunisine. Ero nuovamente allarmata; sapevo che i manifestanti miravano a restare tutta la notte in piazza a reclamare, e che il slogan della protesta era “La gente vuole che il regime cada”. Nessuno si sarebbe mai sognato di sentire parole tanto insolenti uscire dalla bocca del popolo egiziano, perché, molto semplicemente, non abbiamo mai avuto un presidente che abbia lasciato il potere se non da morto. Personalmente ho provato ansia ed agitazione per tutta la mattina, e mi sono sentita colpevole quando ho chiamato la mia migliore amica e mi ha detto che era già in piazza El Tahrir e che stava bene. Mi sentivo in imbarazzo con me stessa per non aver partecipato alle proteste e per il mio mancato contributo al processo di cambiamento nel mio paese. Dunque la sera ero di nuovo a casa su Facebook, stavo cercando di inserire delle note sulla protesta e anche il messaggio di un ragazzo tunisino che dava consigli ai manifestanti egiziani su come sfuggire ai lacrimogeni e riportava altri trucchi usati dai tunisini nella loro rivoluzione. A quel punto mi sentivo totalmente felice per quello che stava accadendo, pensando che fosse una vera rivoluzione giovanile, un movimento genuino per il cambiamento. Stavo facendo del mio meglio per dimostrare la mia solidarietà rispetto al movimento. Alle 18.30 la mia migliore amica mi ha chiamato e mi ha detto che avremmo dovuto boicottare i principali servizi di telefonia mobile e spegnere i nostri cellulari per due ore come reazione alla decisione del governo di tagliare la linea a coloro che si trovavano ad El Tahrir durante la protesta e che ora erano dunque senza contatti con le loro famiglie ed amici. Ho spento il mio cellulare dalle 19.00 alle 21.00 ed ho incoraggiato la mia famiglia a fare lo stesso in segno di solidarietà. Allora la tv nazionale, come sempre, stava trasmettendo le notizie in una versione favorevole al governo, cioè minimizzando la reale portata dell’evento.

3° giorno, giovedì 27 gennaio

Giovedì 27 mia madre ha insistito perché non andassi al lavoro, data l’ubicazione del mio ufficio e considerato che sul mio tesserino fa bella mostra di sé la scritta in grassetto “Governo egiziano”, che evoca il prestigio del potere centrale e rappresenta una forma di intimidazione!
La mia famiglia sarebbe stata in pensiero per me se fossi andata al lavoro o se avessi preso l’autobus diretta verso il centro. Verso mezzogiorno ho chiamato un altro amico per sapere come stava, e mi ha detto che le cose erano molto tranquille quel giorno e i dimostranti sarebbero andati a casa a riposare e sarebbero tornati a protestare il giorno seguente. Inoltre mi ha avvertito che questo venerdì sarebbe stato il grande giorno, ed effettivamente è stato l’apice della crisi. Ero determinata a raggiungere i manifestanti il venerdì e non perdermi la chance di testimoniare questo grande momento della storia contemporanea egiziana, e ho chiamato la mia migliore amica per chiederle di venire con me. I media internazionali stavano incoraggiando il presidente egiziano e il suo regime a non usare la forza contro i manifestanti, dopo aver mostrato gli scontri tra le forze di polizia e i dimostranti e aver comunicato il crescente numero di feriti. In ogni caso, gli organizzatori delle proteste avevano già annunciato che per quanto li riguardava le manifestazioni di venerdì sarebbero state pacifiche. Quella sera una piccola marcia è passata vicino a casa mia, saranno state non più di 50-100 persone, la mia famiglia è rimasta colpita positivamente da quell’episodio, dal momento che vivo in un’area residenziale e commerciale al Cairo est, a un’ora dal centro.

4° giorno, venerdì 28 gennaio, il Venerdì della rabbia: il culmine della crisi

Il 28 le dimostrazioni sono ricominciate verso mezzogiorno, ma solo dopo la tradizionale e importante preghiera del venerdì, e non solo a piazza El Tahrir ma in ogni singolo angolo dell’Egitto, e una lunga marcia è passata sotto casa nostra portando una lunga bandiera dell’Egitto, e abbiamo sentito che c’erano marce attraverso tutto Il Cairo, in ogni area residenziale, ricca o povera, così come in ogni altra città egiziana, accomunate dalla richiesta di lasciare il potere rivolta a Mubarak. Verso le 15.00 abbiamo iniziato a percepire che gli scontri tra i dimostranti e la polizia diventavano più feroci e ho avvertito la sensazione che la polizia avesse perso il controllo della situazione, specialmente ad Alessandria e Suez; ci è giunta la voce che se la polizia non fosse riuscita a mantenere l’ordine presto sarebbe stato schierato l’esercito. Poi le cose sono degenerate repentinamente e il numero di dimostranti a piazza El Tahrir si diceva avesse raggiunto cifre enormi, probabilmente attorno ai 400.000 dimostranti. Verso le 16.00 la situazione era totalmente fuori controllo per le forze di polizia e quello è il momento in cui ho visto le immagini delle sedi del Partito Nazionale Democratico, il partito principale del regime, date alle fiamme, e abbiamo sentito che un certo numero di stazioni di polizia erano state attaccate e incendiate. Verso le 17.00 si è visto in televisione l’esercito entrare in piazza El Tahrir e sapevamo che gli edifici del governatorato di Alessandria erano stati completamente bruciati e distrutti. Verso le 17.15 le forze armate hanno ordinato il coprifuoco dalle 18.00 alle 7.00. Ora immaginate una situazione come questa: far rientrare a casa 20 milioni di persone in 45 minuti in una metropoli come Il Cairo dove mediamente il rientro a casa richiede almeno un’ora e mezza! E in circostanze come queste! Con mezzo milione di persone che manifestavano pubblicamente, e che occupavano il più grande nodo del traffico nel cuore del Cairo?!
Ad ogni modo, fino alle 20.00 le televisioni trasmettevano le immagini di auto ancora incastrate nel traffico nel tentativo di raggiungere casa, e i leader mondiali erano invischiati in una posizione che definirei di “tiepida cautela”, cioè cercavano di prodursi in dichiarazioni a sostegno dei diritti dei popoli all’autodeterminazione, alla libertà di espressione, di parola, di informazione, di riunione, denunciavano la violenta repressione contro i manifestanti e così via, ma allo stesso tempo non esprimevano alcuna opinione decisa a proposito della sopravvivenza del regime di Mubarak stesso. E a mio modo di vedere questo atteggiamento ha messo i leader internazionali in una posizione imbarazzante, il regime si trovava in un punto di non ritorno ma nessuna delle maggiori potenze mondiali aveva il coraggio di dichiararsi favorevole alla sua sostituzione, perché temeva per la stabilità e la sicurezza della regione.
Quella che si è verificata in seguito è stata la totale distruzione di ogni simbolo del potere statale, dalle stazioni di polizia al Cairo, Alessandria e altre città, agli incendi degli edifici delle corti di giustizia, includendo con ciò la distruzione indiscriminata di molti atti giudiziari. Poi il mio cuore si è letteralmente fermato quando ho letto su Al Jazeera news che le fiamme minacciavano il Museo Egizio e che qualcuno stava tentando di rubare la sua collezione. Questo è il Museo dei tesori dell’Egitto faraonico, che non solo rappresenta il bene di ogni egiziano in termini d’identità e cultura ma anche la fonte di sostentamento di milioni di egiziani che lavorano nel settore del turismo. Poi le distruzioni hanno raggiunto un livello inimmaginabile, ogni minuto la televisione trasmetteva nuove immagini di edifici bruciati, distrutti e derubati, incluso il Ministero degli Affari Esteri, la torre della televisione (entrambi collocati in un punto privilegiato, con una magnifica vista sul Nilo), hotel a cinque stelle, ipermercati e molti centri commerciali, negozi, altri palazzi storici, ed ero totalmente confusa sulle ragioni per le quali i miei amici, i miei colleghi e la mia generazione fosse legittimata a fare tutti questi danni per lanciare un messaggio al governo. Non capisco perché alcuni egiziani volessero distruggere i tesori nazionali e la loro storia con le loro stesse mani.

30.000 prigionieri in libertà

Poi il più grande shock è venuto quando abbiamo saputo che alcune prigioni erano state abbattute e che i fuggitivi erano lasciati in libertà! Si trattava di prigionieri di tutti i tipi, dai prigionieri politici legati alla Fratellanza Musulmana, a Hamas o a Hezbollah, ai normali assassini e ladri. A quel punto ho capito che c’erano forze esterne dietro alla crisi e alla distruzione e che le dimostrazioni non erano più controllate dalla rispettabile gioventù che conosco.

Il dilemma della comunità internazionale

Tenterò ora una breve analisi delle reazioni politiche registratesi all’apice della crisi. In quel momento la comunità internazionale, cioè i leader degli Stati Uniti, del Regno Unito, della Francia, della Germania, della Turchia e di Israele, ma anche delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, erano incapaci di mostrare una qualsiasi opinione decisa rispetto a quello che stava accadendo sulla scena egiziana, dove l’esercito si stava schierando dalla parte del presidente, ma allo stesso tempo fungeva da difensore dell’incolumità dei cittadini. La crisi ha mostrato il peso dell’Egitto in Medio Oriente e nel mondo sotto due aspetti: innanzitutto, va rilevato che concretamente non è intervenuto nessun agente esterno all’Egitto, considerate la forza e la complessità del sistema politico e sociale egiziano, difficile da penetrare; in seconda istanza, si è osservato il chiaro fallimento dell’azione degli Stati Uniti tesa a risolvere la crisi a loro favore, insuccesso manifesto se si guarda alla paralisi dell’intera comunità internazionale, se si considera che nemmeno una singola riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza è stata convocata per risolvere la crisi e non è stata elaborata nemmeno una risoluzione. Tali impressioni sono confermate dalla debolezza e dalla mancanza di decisione riscontrabili nel discorso di Hilary Clinton.

Due notti di terrore e i gruppi locali di difesa

Quello che abbiamo vissuto durante la serata di venerdì è stato una sensazione di mera insicurezza e paura, dopo la fuga dei prigionieri e l’inizio dei loro attacchi in tutto il paese, specialmente nei ricchi quartieri dei sobborghi del Cairo, dove famiglie appartenenti a classi medio alte vivono in ville sprovviste di servizi di sicurezza e circondate da ampi viali cui è facile accedere. Abbiamo sentito che i criminali hanno rubato ambulanze, moto, e anche macchine della polizia e le hanno usate come mezzo di camuffamento così da poter accedere indisturbati in questi quartieri nonostante il coprifuoco, che effettivamente concede solo ad ambulanze, militari e giornalisti di guidare attraverso la città. Poi la gente ha iniziato a raccogliere qualsiasi oggetto che potesse fungere da arma per proteggere le strade, e a costruire le barricate per prevenire gli attacchi da parte dei fuggitivi. Gli uomini del mio quartiere hanno iniziato a controllare ogni mezzo che passava in zona, e sono riusciti a catturare dei ladri che si aggiravano nelle vicinanze. Mai come quella notte ho provato la sensazione della paura. Gli amici, che ci chiamavano sul telefono fisso perché internet e cellulari erano bloccati, ci consigliavano di prendere ogni precauzione, avvertendoci che molte aree erano già state attaccate e derubate. Ho visto giovani e anziani della nostra strada raccogliersi sotto il nostro condominio con bastoni di legno, oggetti metallici di ogni sorta improvvisati come strumenti di difesa; pattugliavano le strade per osservare ogni persona o movimento sospetti, accendevano fuochi per illuminare la strada, e alzavano barricate per proteggere le loro case, e anche la mia.

Dimenticavo che alle 16.00 il canale nazionale ha annunciato che il presidente avrebbe tenuto un discorso alla nazione; alla fine questo è arrivato con notevole e comprensibile ritardo visto il caos e le distruzioni che hanno caratterizzato le ultime ore. Solo alle 00.30 Hosni Mubarak ha parlato al popolo egiziano, tenendo un discorso troppo debole rispetto alla rilevanza degli eventi. Si è detto rammaricato per quello che stava succedendo e ha rivelato che ci sono attori esterni che giocano un ruolo importante nei disordini; alla fine ha chiesto al governo di dimettersi, a dispetto delle attese del pubblico che credeva che avrebbe alternativamente accettato di lasciare la presidenza o deciso di sciogliere il parlamento. Dopo un lungo silenzio ha dunque reso noto che il governo sarebbe stato il suo capro espiatorio. La reazione della strada, com’è ovvio, è stata negativa, nessuno era soddisfatto. La rabbia è scoppiata anche per la fuga dei 30.000 prigionieri verificatasi a causa del ritiro della polizia.

5° giorno, sabato 29 gennaio

Il mattino seguente, sabato 29 gennaio, mio cognato, ufficiale dell’esercito, ha portato mia sorella e il suo bambino a stare a casa nostra, perché è stato chiamato dalla sua unità e non sapeva quando sarebbe tornato. Allo stesso modo mio fratello è rimasto con i suoi suoceri, tutti stavano con le loro famiglie, i parenti, e tutto scivolava verso l’ignoto. Siamo rimasti a casa a seguire i telegiornali che riportavano gli sviluppi della crisi. Verso mezzogiorno il presidente ha annunciato il suo nuovo vice e il subentrante primo ministro. La tv nazionale ha anche mostrato il capo dell’esercito in un incontro con il presidente e con il nuovo vice-presidente, sottolineando che l’esercito non avrebbe voltato le spalle al presidente, con il quale era in totale armonia. Tutto il giorno abbiamo seguito le notizie da Al Jazeera, dalla BCC, dalla CNN e dal canale arabo della BBC, ed eravamo irritati dal loro modo di stilizzare le notizie e darle in pasto all’opinione pubblica apposta per far crescere nella gente la rabbia contro il regime.
Inoltre i giornali quel giorno hanno pubblicato tutti i retroscena della distruzione delle carceri; così come centinaia di manifestanti sono state ferite durante le proteste, anche centinaia se non migliaia di rispettabili poliziotti sono stati UCCISI quando i beduini hanno fatto irruzione nelle carceri con i bulldozer COSTRINGENDO i prigionieri alla fuga.

Il mio cuore era sinceramente afflitto quando ho visto nei giornali i corpi di tutti quei rispettabili poliziotti crivellati di colpi e ridotti come colapasta sotto i colpi dei beduini. Non c’è bisogno di dire che questi agiscono sotto il comando di forze esterne, che vanno da paesi “amici” ai paesi nemici della regione. Una cosa evidente, è che tutti quei prigionieri politici che sono stati liberati rappresentano per qualcuno il target primario. Così, uno dei fuggitivi ha chiamato Al Jazeera e ha iniziato a parlare a nome dei Fratelli musulmani; le autorità egiziane hanno reagito tagliando la trasmissione di Al Jazeera, così in quel momento ci siamo trovati contemporaneamente sotto un coprifuoco esteso, tagliati fuori dalle reti telefoniche mobili e da internet, e non potevamo più vedere Al Jazeera. Non che io sia innamorata di quest’emittente, ma per farvi capire come ci siamo sentiti quando abbiamo capito di essere tagliati fuori dal mondo. Per me, la BBC araba era tanto irritante quanto Al Jazeera, se avessi voluto, avrei potuto tentare di ripristinare Al Jazeera attraverso il satellite Hotbird o avrei potuto sintonizzarmi su Al Jazeera International, ma l’una vale l’altra. Comunque quella tra sabato o domenica è stata un’altra notte di paura, abbiamo sentito spari e seguivamo i nostri uomini camminare su e giù per la strada tentando di catturare i ladri. Inoltre, ogni cinque secondi ricevevo una telefonata da uno dei miei amici che mi chiamava per raccontarmi dei ladri catturati in altri quartieri.

6° giorno, domenica 30 gennaio: nuovo governo, stessi ministri!

Un nuovo governo si è insediato domenica 30 e ciò non ha fatto che scatenare nuovamente la rabbia, essendo il “nuovo” governo composto per almeno la metà dei suoi membri da esponenti del governo precedente. Quanto è stupida questa mossa? Ovviamente i manifestanti conoscono i membri del vecchio governo, e hanno annunciato una grande marcia, la Marcia del Milione, per martedì. La televisione nazionale a quel punto stava diffondendo la richiesta di affrontare innanzitutto la questione sicurezza, e poi il lato politico della crisi. La dimensione delle perdite nell’economia egiziana era senza precedenti, si calcola si siano bruciati 40 miliardi di dollari americani. Osservatori ed economisti legati al regime hanno affermato che ogni giorno di protesta conta quanto un intero anno di lavoro e un altro anno di riforma. Il Fondo Monetario Internazionale ha offerto il suo aiuto all’economia egiziana una volta che la leadership fosse stata in grado di prendere decisioni (beh, grazie mille, caro Fondo Monetario Internazionale!).
 
7° giorno, lunedì 31 gennaio

Non c’è bisogno di dire che i giorni ci sembravano legati l’un l’altro e che non si poteva ben distinguere il giorno dalla notte, così lunedì 31 la rabbia per la formazione del nuovo governo è divampata nuovamente e i giovani hanno iniziato ad annunciare per il giorno successivo la Marcia di un Milione di persone verso Eliopoli, dove si trova la residenza di Mubarak, per chiedergli di dimettersi. Tutti gli altri cercavano di capire la posizione di Mohamed El Baradei e la tv nazionale e i telegiornali erano concentrati principalmente sui temi del recupero della pace e della sicurezza, nonché sulla necessità di ripulire le città e cancellare le tracce di fuochi, distruzione e danni. Così verso mezzogiorno gli uomini della nostra strada stavano pulendo l’immondizia lasciata per una settimana lungo la strada e questo è quello che stava succedendo in ogni angolo dell’Egitto. Aggiungete a questo il fatto che tutti i gruppi di difesa locale, così come sono stati ribattezzati, sono riusciti a restituire alla polizia molti degli oggetti rubati e che le moschee sono state usate come punto di raccolta. Molto significativo è che le forze di polizia sono state schierate nuovamente lungo le strade egiziane, mentre erano scomparse totalmente nei due giorni precedenti. Comunque, la gente si stava già preoccupando per la scarsità nell’approvvigionamento del cibo come risultato della chiusura dell’economia per diversi giorni; questo che ha portato a una domanda massiccia di pane, verdura, carne e altri alimenti di prima necessità, con lunghe code presso le stazioni di benzina.

8° giorno, martedì 1 febbraio: la Marcia del Milione (dei milioni?)

Martedì 1 febbraio già dalla mattina presto stavamo seguendo l'aumento del numero di manifestanti a piazza El Tahrir e speravamo che non avesse luogo alcuno scontro tra i dimostranti e il personale della sicurezza (sia esercito che polizia) perché non volevamo che nessun egiziano uccidesse i propri fratelli. Nessuno voleva che si spargesse il sangue di un milione di giovani egiziani. L’atmosfera si è surriscaldata e ancora una volta abbiamo atteso una reazione forte del presidente o del nuovo vice, notando che negli ultimi giorni avevamo sentito un discorso del capo del parlamento in cui prometteva che avrebbe accettato la decisione della corte suprema deputata a indagare sui brogli verificatisi durante le ultime elezioni. Alla fine, verso le 23 è arrivato il discorso di Mubarak, in cui affermava che non si sarebbe ricandidato per le elezioni e che avrebbe aperto i canali del dialogo con tutte le forze dell’opposizione e che avrebbe ordinato alle corti di investigare sui motivi per i quali forze di polizia si erano ritirate drasticamente e su che cosa avesse portato allo stato di insicurezza e caos che gli egiziani avevano sotto gli occhi. Ha anche parlato di se stesso come un uomo che ha servito per tutta la vita, l’Egitto. Personalmente ho trovato rispettabile questo discorso rispetto al primo e sono rimasta toccata dalla sua insistenza sull'intenzione di morire nella sua terra e dal coraggio di affrontare la contestazione e non lasciare il paese.

9° giorno, mercoledì 2 febbraio: la battaglia di Tahrir

Oggi 2 febbraio, mercoledì, un nuovo gruppo è apparso, i pro-Mubarak, cioè quelli che reclamano la stabilità immediata, che sostengono che il paese si debba rialzare dopo i giorni di crisi e che si oppongono ai dimostranti non soddisfatti delle ultime aperture. La cosa strana in tutto questo è che non sappiamo a cosa condurrà questa contrapposizione: sono forse le prime avvisaglie di una guerra civile in Egitto? Abbiamo assistito a scontri tra i due gruppi per tutto il giorno e siamo rimasti incredibilmente spaventati dalla vista di egiziani che gettavano pietre su altri egiziani. L'unica cosa positiva che è successa oggi è stata la dichiarazione del ministro degli esteri che ha rifiutato esplicitamente il consiglio del presidente americano di iniziare la transizione pacifica del potere "ora". E' una delle poche volte in cui la diplomazia egiziana prende posizione in modo così netto e risoluto contro l'unica superpotenza del pianeta. Ora sono le 19.55 e sto testimoniando un altro picco della crisi; le forze armate hanno mandato un sms a tutti i manifestanti che si trovano a El Tahrir chiedendo loro di evacuare immediatamente la piazza poiché secondo alcune voci essa sarà bruciata, inclusi i dimostranti. Tutto rimane incerto.

Ho raccontato tutto ciò cui ho assistito finora. Prego per il mio Egitto e chiedo a voi tutti di pregare per noi.

S. A.

Traduzione e redazione a cura di Mattia Corbetta

domenica 30 gennaio 2011

“A COSA SERVE LA TUA VITA SE NON PUOI LASCIARE UN’IMPRONTA IN QUESTO MONDO?”: Intervista a uno studente egiziano sulle sommosse che stanno scuotendo il regime di Mubarak

Mohamed Omar è un ragazzo egiziano di ventotto anni. Dopo la laurea in economia e commercio è partito per il nostro paese con un obiettivo: assicurarsi un futuro stabile, degno, all’altezza delle sue capacità – un sogno negato alla maggior parte dei suoi coetanei egiziani. Arrivato a Perugia, ha frequentato brillantemente l’Università per Stranieri, laureandosi in Lingua e cultura italiana.

Nel corso della sua esperienza italiana, ha dovuto contare solo su se stesso. Per finanziare i suoi studi ha fatto i lavori più disparati: è stato muratore, lavapiatti, cuoco, operaio in fabbrica. La sua famiglia ha origini contadine – come del resto la quasi tutte le famiglie egiziane - ed è originaria di una città industriale, El-Mahalla El-Kubra, situata sul delta del Nilo e nota perché sede della più grande compagnia egiziana nel settore tessile.

Attualmente Mohamed frequenta, da beneficiario di una borsa di studio concessagli per i suoi meriti accademici, il master in Internazionalizzazione dell’impresa nell’area del Mediterraneo organizzato dall’Università di Stranieri di Perugia con il patrocinio della SIMEST, Società Italiana per le Imprese all’Estero. Negli ultimi anni l’Italia è diventata il primo partner commerciale dell’Egitto a livello europeo e secondo tra i Paesi occidentali dopo gli Stati Uniti, e Mohamed spera, grazie alle sue competenze linguistiche e alla sua preparazione in materia economica, di trovare un impiego nel campo delle relazioni bilaterali tra Italia ed Egitto.

            Ci siamo incontrati per parlare della sollevazione popolare nata sull’onda della Rivoluzione del gelsomino tunisina e che sta cambiando la storia dell’Egitto e del Medio Oriente. Sulla portata epocale della crisi egiziana non ci sono dubbi: rappresenta un punto di non ritorno per la vita politica egiziana e un fattore di destabilizzazione per tutta l’area mediorientale, dove l’Egitto di Mubarak rappresenta la testa di ponte del sistema di alleanze americano nonché il termometro delle relazioni arabo-israeliane.

La padronanza con cui parla la lingua italiana mette l’interlocutore a suo agio, domande e risposte si susseguono fluidamente, senza intoppi e incomprensioni. Mentre parla intuisco la mole di lavoro e di sacrifici cui ha dovuto far fronte per raggiungere questo eccellente livello di conoscenza della nostra lingua.
           
Mohamed non ama i giri di parole, è laconico e diretto nell’esprimere le sue idee. Lo sguardo è sicuro, le opinioni, taglienti, sono espresse con fermezza. La voce non tradisce particolari emozioni, se non quando rivela la rabbia rispetto alla condizione di milioni di egiziani che vivono sotto la soglia di povertà e la frustrazione di una generazione, la sua, formata da studenti qualificati ma senza prospettive.

D: Mohamed, è un piacere poter raccogliere le tue impressioni su quello che sta succedendo in Egitto. Quali sono le tue sensazioni rispetto agli eventi degli ultimi giorni?

R: Provo dolore per i miei connazionali immolatisi prima dell’inizio della rivolta e per quelli caduti durante gli scontri (NDR almeno cento, forse 150, come riportato da autorevoli agenzie di stampa internazionali) e sono preoccupato per i miei cari. Per sedare la rivolta, per evitare che l’informazione circoli liberamente, il governo ha tagliato internet e anche le comunicazioni per alcune compagnie di telefonia mobile, quindi le notizie arrivano confuse e frammentate. Ma oltre al dolore e alla preoccupazione quello che sento è un profondo orgoglio e rispetto per il popolo egiziano che si sta sollevando per cambiare la propria condizione.

D: A cosa ti riferisci?

R: Mi riferisco al fatto che milioni, forse decine di milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà. Il nostro è un paese potenzialmente ricco, abbiamo molte risorse: i porti, il turismo, un’agricoltura fiorente, siamo autosufficienti in campo energetico. Ma i salari rimangono bassissimi mentre l’inflazione è alle stelle.

D: La stampa internazionale pone l'accento sul fatto che il governo ha bloccato l’inflazione grazie al calmieramento dei prezzi dei prodotti di base.

R: Non è così, o comunque questo corrisponde solo parzialmente alla realtà. I prezzi continuano a fluttuare; per farti un esempio, i miei genitori mi hanno detto che due settimane fa il prezzo di un chilo di pomodori ha superato la soglia dei due euro, in linea con i prezzi italiani. Ma i salari egiziani sono più di dieci volte inferiori a quelli italiani. Oggi il dollaro vale sei lire egiziane, l’euro otto, ma dieci anni fa la nostra moneta valeva il doppio. E comunque anche la manipolazione artificiosa dei prezzi rivela la debolezza del governo, che non può permettere che il mercato determini i prezzi con la naturale interazione tra domanda e offerta.

D: La povertà diffusa è l’unico problema?

R: La povertà è un problema enorme. Chi ha un lavoro vede il proprio stipendio dissolversi già alla seconda settimana del mese. Le paghe sono assolutamente inadeguate rispetto al costo della vita. Ma povertà ed eccessivo costo della vita non sono l’unico problema. Una delle più grandi questioni irrisolte riguarda la situazione di milioni di giovani che non riescono a trovare un lavoro.

D: Qual è l’ampiezza di questo fenomeno?

R: Si tratta di un fenomeno che ha una portata enorme, la disoccupazione interessa un giovane su due e il governo non ha adottato nessuna misura per contrastarla. Le risorse del paese non sono usate per creare lavoro: una parte viene assorbita dalle imprese straniere che effettuano investimenti in Egitto senza che ci sia una ricaduta positiva sul paese. Un’altra parte rilevante viene usata per mantenere la polizia che protegge Mubarak e il suo entourage. Le privatizzazioni selvagge degli ultimi anni non hanno fatto che aggravare la situazione.

D: La disoccupazione riguarda solo i giovani o colpisce tutti gli egiziani?

R: Il tasso di disoccupazione generale si attesta ufficialmente poco oltre il 10%. A prescindere dall’attendibilità di questi dati, quello che noi egiziani percepiamo è che, per quanto riguarda i giovani, metà di essi siano disoccupati. Non si parla d’altro. In Egitto molti dei miei amici non hanno prospettive, io stesso ho preferito cercare la mia strada altrove, il mercato del lavoro è apparentemente saturo. I giovani sono disperati e le proteste di questi giorni sono portate avanti proprio da questa massa di disoccupati senza un futuro. A cosa serve la vita se non puoi lasciare un’impronta in questo mondo?

D: Eppure la stampa internazionale descrive il quadro egiziano come un caso di relativa prosperità nel contesto arabo.

R: Il regime di Mubarak è amico dell’Occidente, di cui fa gli interessi in campo politico, garantendo la pace con Israele, ed economico, aprendo agli investimenti stranieri. Se la stampa occidentale dipinge la situazione egiziana in questo modo, è solo per legittimare la presenza di un dittatore in un paese alleato. Le statistiche sul PIL non tengono conto dell’ingiusta distribuzione della ricchezza che si ha nel mio paese. Le risorse sono in mano a un’élite formata da poche persone. Dall’altra parte c’è la società vera, composta anche da milioni di affamati. Possiamo schematizzare la società egiziana dividendola in alcune classi.
Ci sono i contadini, che vivono per lo più lungo il Nilo e sono in gran parte analfabeti, perciò controllabili. Vivono in un mondo chiuso, non si rendono conto della loro miseria, perciò sono tradizionalmente favorevoli a Mubarak. Coltivando i campi riescono a sostenersi, a sopravvivere con i frutti del loro lavoro, e questo è per loro sufficiente; non li preoccupa il fatto che siano altri a decidere della loro vita, e i problemi delle altre classi non li riguardano.
Come ho già detto, c’è poi un esercito di affamati che vive sotto la soglia della povertà.
C’è una classe media, creata ai tempi di Nasser, che si sta riducendo e appiattendo verso la povertà. Prendiamo una famiglia del ceto medio: vive in città, il padre ha un lavoro discreto nell’amministrazione. I suoi figli però stentano a trovare lavoro, quindi a uscire di casa, a rendersi autonomi. Hanno i mezzi culturali per aspirare a una posizione decente, spesso sono qualificati, ma non hanno prospettive. Le proteste provengono innanzitutto da questa classe, che non accetta l’assenza di possibilità. In questi giorni lo scontro generazionale è cessato, perché anche i genitori si sono resi conto che la situazione è insostenibile. Anche la tradizionale contrapposizione tra campagna e città è venuta meno, i numeri delle manifestazioni parlano chiaro, tutto il popolo vuole un cambiamento.

D: Vedi un legame tra la rivoluzione tunisina e quello che sta succedendo in Egitto?

R: Certamente. Innanzitutto il background culturale, religioso e linguistico è lo stesso. Inoltre i due paesi hanno in comune l’assenza di democrazia, la presenza di regimi longevi e autoritari, la disoccupazione giovanile, l’inflazione ecc. Grazie a internet e ad Al Jazeera le notizie sulla rivoluzione tunisina sono arrivate in Egitto. Anche gli egiziani, di solito abituati e rassegnati alla sottomissione, hanno preso coraggio. La gente non ha più paura e sfida apertamente il governo.

D: Al di là degli eventi delle ultime settimane, che ruolo ha avuto l’opposizione in questi anni?

R: Nell’ultimo decennio la manifestazione di opinioni avverse al regime era ammessa, ma era destinata a non produrre alcuna conseguenza. In pratica si poteva criticare liberamente il regime, ovviamente con accortezza, ma mai questo avrebbe prestato ascolto alle richieste della gente. L’opposizione è stata combattuta e sedata attraverso la propaganda di regime. L’unico movimento sempre fedele a se stesso nell’opposizione al governo è stato quello dei Fratelli Musulmani; fin dall'ascesa al potere Mubarak l’ha temuto e per questo ha sempre mantenuto lo stato di emergenza nazionale (NDR vigente dal 1981, data dell’assassinio dell’ex presidente di Sadat e dell’ascesa a presidente di Mubarak) che permette di usare il pugno duro contro gli oppositori. La cricca di Mubarak non si cura minimamente dei problemi del paese, della fame, della disoccupazione, dell’inflazione. Al massimo cerca di limitare le situazioni negative affinché il malcontento non sfoci in un’aperta opposizione che possa metterne a rischio il potere.

D: Quale ruolo ha il parlamento? Non rappresenta anche le istanze dell’opposizione?

R: Il parlamento è uno specchietto per le allodole. Serve a far credere all’opinione pubblica occidentale, di fronte alla quale le classi politiche americana ed europea devono giustificare l’amicizia con la dittatura di Mubarak, che questo regime è aperto, che sta confluendo verso i valori democratici. Ma non è così, il parlamento non svolge alcuna funzione. L’opposizione è sterilizzata dal monopolio dei media; le elezioni sono truccate. La vera opposizione viene dai movimenti extraparlamentari, come Kefaya, il Movimento politico per il cambiamento, che si oppone al passaggio di consegne da Hosni Mubarak al figlio Gamal ventilato nei mesi scorsi. C’è il movimento del 6 aprile, nato nel 2008 in reazione al forte aumento dei prezzi dei beni di prima necessità che si verificò in quell’anno. C’è il partito di El Baradei, una figura di prestigio a livello internazionale che si auspica una transizione democratica. E ci sono i Fratelli musulmani.

D: A proposito dei Fratelli Musulmani, pensi che rappresentino davvero un pericolo per la società egiziana, come descritto da parte dei media occidentali? Se arrivassero al potere, nel dopo Mubarak, cosa significherebbe per il futuro del paese?

R: Credo che quello della presunta minaccia rappresentata dai Fratelli Musulmani e dai movimenti terroristici islamici sia un tema utilizzato strumentalmente dai politici occidentali per legittimare, di fronte all’opinione pubblica cui devono rispondere, il protrarsi della dittatura di Mubarak.

D: La strage dei copti non è indice dell’inaffidabilità dei gruppi politici di matrice islamica?

R: Onestamente metto in dubbio la ricostruzione che è stata data dalla stampa rispetto a questo drammatico avvenimento. Non sono sicuro che siano stati gruppi terroristici di matrice islamica. Ho il sospetto che i mandanti siano altri, che sia un episodio creato ad arte per giustificare l’esistenza del regime di Mubarak, il paladino della lotta ai gruppi terroristici, di fronte ad americani ed europei. In questi giorni di caos totale, in cui le forze dell’ordine non hanno ben sotto controllo la situazione, perché i gruppi fondamentalisti non ne approfittano per fare altre stragi di cristiani, se la loro eliminazione è davvero il loro obiettivo? Gli egiziani cristiani e musulmani hanno sempre convissuto pacificamente. Da quanti anni c’è l’Islam in Egitto? Mille e trecento. Eppure ci sono ancora almeno dodici milioni di cristiani in Egitto.

D: Ti auspichi che siano gruppi di matrice religiosa a succedere a Mubarak?

R: Non è questo il punto. Credo che la mia religione, quella musulmana, non rappresenti alcun ostacolo per la vita politica di un paese. La religione è come un semaforo, così come questo regola il traffico, essa regola il comportamento delle persone. Il precetto “non rubare” deriva da una norma di senso comune ma anche da un principio di origine religiosa. Non c’è niente di male se i politici seguono un comportamento ispirato all’etica della religione islamica. L’importante è che anche le altre comunità religiose siano rispettate e salvaguardate, com’è sempre stato per i cristiani.

D: La situazione dei cristiani egiziani preoccupa l’opinione pubblica occidentale. Come descriveresti la convivenza tra cristiani copti e musulmani in Egitto?


R: Pacifica. Prendi il mio esempio. Sono musulmano sunnita ma ho frequentato una scuola che si trovava nel cortile di una chiesa copta. Molti miei compagni di classe erano cristiani copti. Molti miei amici sono copti.


D: E questo non è dovuto anche al carattere laico del regime di Mubarak?

R: Il regime di Mubarak dura da trent’anni, ma non è eterno. Già prima ci sono stati secoli di convivenza pacifica tra cristiani e musulmani. Chi protegge i cristiani non è Mubarak, ma è il popolo egiziano.

D: Credi che Mubarak riuscirà a tenere in pugno la situazione? Quale evoluzione prevedi?

R: Fare previsioni è davvero molto difficile. So solo che la l’incertezza prevarrà a lungo. Milioni di persone, come me, sono nate sotto Mubarak e non hanno mai conosciuto altro regime. Non siamo un popolo abituato ai cambiamenti. Gli egiziani non sono abituati a decidere per loro stessi. Negli ultimi cinquant’anni, sebbene sia venuta meno l’influenza dei regimi coloniali, siamo sempre stati governati da militari. La leadership egiziana si è sempre affermata con il potere delle armi, mai come espressione della volontà del popolo. Sempre che sia un obiettivo davvero raggiungibile, la distanza tra l’Egitto e la democrazia è enorme. Ci vorrebbe un processo di transizione graduale.

D: A prescindere dalla crisi attuale, il malcontento verso Mubarak è sempre stato così forte, anche se magari sommerso?

R: No, la situazione economica del paese è precipitata negli ultimi dieci anni. Prima la gente sosteneva il presidente; ma nell’ultimo decennio i consensi sono scesi inesorabilmente, anche se ufficialmente tutto andava bene e il presidente veniva eletto con percentuali altissime. I fenomeni di cui ti ho parlato, come l’inflazione, la povertà, la disoccupazione, la corruzione, sono diventati più consistenti negli ultimi anni. Mubarak è invecchiato, ha ottantadue anni, non ha più la forza per dirigere un paese di ottanta milioni di persone. Progressivamente il potere, pur rimasto simbolicamente nelle sue mani, è passato al suo entourage, alla polizia di regime, a una serie di famiglie ricche, a uomini d’affari corrotti e senza scrupoli che si sono arricchiti indebitamente. Chi ne ha fatto le spese è la gente comune, che ora non ne può più. La rabbia è tanta, il paese sta scoppiando, una delle sfide più impegnative in questo momento è quella di contenere la rabbia del popolo egiziano.

D: Qual è il ruolo dell’esercito?

R: L’esercito ha peso fondamentale. I soldati hanno il potere delle armi, quello egiziano è uno degli eserciti più numerosi al mondo, il più forte nel mondo arabo.  

D: Mubarak non si è preoccupato di tenerlo a bada?


R: Certo, e non dimenticare che Mubarak viene dall’esercito. Ma nel corso degli anni si è servito sempre di più della polizia per proteggersi e sedare le rivolte. L’esercito è ben visto dalla popolazione, mentre la polizia di regime è odiata. Ma, a prescindere dall’appoggio o meno dato a Mubarak dall’esercito, questo potrebbe comunque fare ben poco contro la rivolta di milioni di persone disperate e pronte al sacrificio.


D: E’ la fine per Mubarak?

R: Il suo primo errore strategico è stato concedere la possibilità che si tenessero elezioni parlamentari nel 2005. Per quanto falsate e mosse da fini strumentali, esse hanno fatto germogliare nell’inconscio del popolo egiziano l’idea che un cambiamento è possibile. Venendo al 2008, in concomitanza con la crisi alimentare mondiale, si è verificata una sollevazione popolare molto forte, di cui si è parlato in tutto il mondo. La mia città, El-Mahalla El-Kubra è stata l’epicentro della rivolta. Vi si trova il più grande impianto tessile di tutto l’Egitto, dove lavorano decine di migliaia di operai. Chiedevano aumenti perché il loro stipendio raggiungeva a malapena il corrispettivo di cinquanta euro al mese. Le proteste sono state represse con la forza ma hanno lasciato un ricordo indelebile nelle menti di molti egiziani. Ora, grazie alle notizie giunte dalla Tunisia, la gente si è fatta coraggio ed è decisa a cambiare la storia.

domenica 23 gennaio 2011

LA RIVOLUZIONE TUNISINA E IL POTENZIALE EFFETTO DOMINO IN EGITTO: quali le analogie tra la Rivoluzione del gelsomino tunisina e la crisi del regime di Mubarak?

Gli eventi verificatisi in queste ultime settimane in Tunisia, dove le manifestazioni di piazza hanno spinto alla fuga il presidente Zine el Abidine Ben Ali, rappresentano un evento di portata storica per diverse ragioni.

      Innanzitutto si tratta della prima vera rivoluzione popolare avvenuta in un paese arabo. Già in passato alcuni leader arabi a capo di regimi autoritari erano stati costretti ad abdicare; ma per la prima volta l’avvicendamento nella detenzione del potere non è stato causato dall’azione dell’esercito o dall’intervento di una potenza esterna, bensì è il popolo ad essersi collocato al centro della scena.

       In seconda istanza, aspetto non da trascurare, si tratta di manifestazioni di protesta largamente condivise da parte dell’opinione pubblica del mondo arabo. Le contestazioni  che hanno infiammato la scena politica e sociale tunisina potrebbero verosimilmente ripetersi anche in numerosi altri paesi del mondo arabo, essendo molti di questi afflitti da problemi simili: sensibile aumento dei prezzi dei generi alimentari, alti tassi di disoccupazione, negazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali e mancanza di rappresentatività da parte delle élite politiche.

A moltiplicare le implicazioni della crisi tunisina hanno contribuito poi i media, specie il network televisivo Al Jazeera, che seguendo costantemente la crisi, ne ha portato le immagini in milioni di case e ne ha illustrato l’evoluzione in lingua araba, mezzo comunicativo ufficiale di almeno una ventina di paesi. Il pubblico arabo ha seguito con entusiasmo e solidarietà la Rivoluzione del gelsomino, e potrebbe essere tentato a imitare tale esperienza nel proprio paese.
           
    Va sottolineato inoltre l’aspetto psicologico della crisi tunisina: i regimi dittatoriali fondati sull’appoggio delle forze armate si sgretolano rapidamente non appena i cittadini mostrano di non temere più lo scontro con i militari, dimostrando di essere pronti al sacrificio pur di ottenere i loro fini. Il dispotico potere di Ben Ali si è sciolto ben prima della fuga dal paese: la sua autorità si è sbriciolata quando ha dimostrato di temere le reazioni delle masse in seguito al sacrificio di Mohamed Bouazizi, il ragazzo che il 17 dicembre si è dato fuoco in segno di protesta contro la corruzione del regime e la carenza di opportunità lavorative. Ben Ali ha capito che il caso di Bouazizi avrebbe potuto dar vita a proteste generalizzate, così ha tentato di sedarne sul nascere le implicazioni adoperandosi in manifestazioni di solidarietà e comprensione verso la vittima. Così facendo ha però mostrato la sua debolezza di fronte al popolo, che si è reso conto della fragilità del regime ed ha trovato, dopo ventitre anni, la forza di ribellarsi. Non appena questo sottile meccanismo sarà compreso dalle masse di altri paesi, altri rivoluzioni vedranno la luce.

Scenari simili a quelli tunisini potrebbero profilarsi ad esempio in Egitto, dove le somiglianze con la Tunisia sono notevoli: entrambi i paesi sono stati dominati, nel passato recente, da leader longevi e autoritari - il presidente Hosni Mubarak, 82 anni, ha praticamente il monopolio del potere ed è in carica da trent’anni (Ben Ali ne ha 74 ed è rimasto al potere per circa 23 anni). In entrambi i paesi le condizioni economiche sono dure, le autorità corrotte, e poca è la libertà di espressione – giornali e televisioni sono asservite al potere, ridotta è la libertà di espressione, di riunione e associazione ecc. Inoltre entrambi i paesi hanno subito crisi inflattive. In Egitto,  paese che vanta un’enorme importanza nella regione - per i suoi quasi ottanta milioni di abitanti, per la sua storia, per l’influenza culturale in tutto il mondo arabo del suo cinema e dei suoi canali televisivi, nonché per il suo elevato peso politico ed economico-, il prezzo dei generi alimentari è cresciuto sensibilmente già nel 2008, scatenando violente proteste da parte della popolazione civile; solo la prontezza del governo, intervenuto immediatamente per calmierare i prezzi, ha evitato che le sommosse popolari sfociassero in una crisi a livello politico. Ciò non può rappresentare di certo una soluzione definitiva al problema dei costi della produzione agricola e dell’inflazione – il calmieramento dei prezzi non è sostenibile nel medio periodo.

Prima di addentrarsi nell’analisi delle similitudini tra l’arena sociopolitica egiziana e quella tunisina, è forse il caso di spendere qualche parola sulle cosiddette “rivolte del pane”, ovvero quella serie di agitazioni che si ripresentano puntualmente allorché i prezzi dei generi alimentari di base aumentano sensibilmente – avendo questo fenomeno interessato entrambi i paesi. Innanzitutto va sottolineato che le rivolte del pane sono un fenomeno antico e verificatosi in ogni area geografica; in senso lato possono essere definite come i movimenti popolari che avvengono in coincidenza con periodi di carestia. Nell’uso corrente l’espressione “rivolte del pane” include estensivamente le reazioni che scaturiscono in seguito all’aumento del prezzo non solo del grano ma di tutti i principali generi alimentari di prima necessità – zucchero, sale, olio, latte ecc.

Per quanto riguarda le reazioni da parte delle autorità politiche, quest’ultime già in epoca romana si preoccupavano di sedare le agitazioni distribuendo il grano a prezzo calmierato o addirittura gratuito (frumentationes). Ancora oggi questo resta l’espediente cui le élite politiche ricorrono allorché i disordini acquistano una dimensione tale da minacciare la stabilità del loro potere: per fare qualche esempio, tanto Bourguiba (il predecessore di Ben Ali) nel 1983, quanto Mubarak nel 2008, Bouteflika (il presidente algerino al potere dal 1999) il 5 gennaio scorso e Ben Ali alla vigilia della sua fuga (avvenuta il 14 gennaio), si sono preoccupati di annunciare il calmieramento dei prezzi allorché il clima politico nei rispettivi paesi si stava surriscaldando in misura per loro preoccupante. Tali annunci hanno avuto successo, tranne nel caso di Ben Ali la cui autorità era ormai troppo compromessa.

Per un’analisi comparativa tra i moti di piazza che stanno interessando i paesi del Nordafrica e del Medio Oriente, è interessante notare che essi sono tutti, anche se misure diverse, legati alla crisi alimentare mondiale con cui è iniziato il 2011. Sulla consistenza della crisi alimentare mondiale e sul suo carattere globale c’è unanimità di vedute tra gli economisti e osservatori delle relazioni internazionali; l’allineamento viene meno quando si tenta una spiegazione delle cause della crisi. Se è noto che i fenomeni di inflazione sono determinati da un eccesso di domanda rispetto all’offerta, non tutti sono d’accordo sulle cause del fenomeno inflattivo che ha interessato l’indice dei prezzi dei generi alimentari.

Alcuni hanno addotto problemi dal lato dell'offerta (esaurimento delle risorse acquifere e loro distrazione verso le aree urbane); altri hanno messo in risalto il ruolo della speculazione internazionale, che ha ingigantito l'effetto negativo dei primi dati sui raccolti, e quello dell'alto prezzo del petrolio, che ha reso più conveniente investire nei biocarburanti. Altri studi hanno spostato l'attenzione sui fenomeni climatici avversi che hanno colpito Russia, Australia e il continente americano. Volendo sposare questa visione del problema, dato che la produzione di ogni bene agricolo è concentrata in pochi paesi, e che gli effetti del cambiamento climatico si manifesteranno con crescente intensità, la volatilità dei prezzi è da considerarsi un fenomeno ormai radicato e di lungo termine.

Indipendentemente da quali siano le sue cause, quello che rileva rispetto al Nord-Africa e il Medio Oriente, è che l'inflazione legata ai generi alimentari (pari a circa il doppio di quella generale in India, Indonesia e Cina) può mettere a rischio la stabilità politica dei paesi che ne sono colpiti. Tra questi paesi spicca sicuramente l’Egitto.

Il 2011 si annuncia come un momento decisivo per la storia contemporanea egiziana. Sono trascorse poche settimane dall’inizio dell’anno e già si sono verificati eventi che influenzeranno sensibilmente il futuro di questo paese. La stabilità di questo rilevante attore geopolitico è minata dai cronici episodi di violenza a connotazione religiosa (l’ultimo dei quali è la strage dei copti di Alessandria del primo gennaio), dalla probabile secessione di parte del Sudan (cui le vicende egiziane sono strettamente collegate) in seguito al referendum del 15 gennaio, e, soprattutto, dalla intenzione, confermata da diverse fonti, del presidente Mubarak di lasciare il potere dopo quasi trent’anni.

Questi elementi di instabilità potrebbero dar vita a mutamenti radicali simili a quelli registratisi in Tunisia. Dato il peso specifico del paese, le conseguenze di un avvicendamento politico sarebbero ben più rilevanti per tutto il quadro mediorientale. L’Egitto svolge infatti un ruolo chiave all’interno della Lega Araba, di cui è il paese più popoloso e il secondo più ricco in termini di prodotto interno lordo. E’ l’ago della bilancia nel quadro del conflitto israeliano-palestinese, essendo collocato su posizioni favorevoli all’Occidente sin dai tempi degli accordi di Camp David, firmati nel 1979 e culminanti in un trattato di pace israelo-egiziano. Volendo avere una prova dell’importanza dell’Egitto nelle relazioni internazionali, si consideri che se dopo il 1973 non si sono ripetuti conflitti arabo-israeliani, cioè quegli scontri bellici che hanno visto fronteggiarsi da una parte l’esercito israeliano (supportato da alcuni paesi occidentali) e dall’altro gli eserciti di diversi paesi arabi (come avvenuto in occasione della guerra d’indipendenza israeliana del 1948, della guerra scaturita in seguito alla crisi di Suez del 1956, della guerra dei sei giorni del 1967 e della guerra dello Yom Kippur del 1973), ciò si spiega soprattutto con la scelta, operata da Sadat nel ’79 e confermata da Mubarak nel corso degli ultimi trent’anni, di assumere posizioni concilianti nei confronti di Israele (in cambio di generosi aiuti da parte degli Stati Uniti e di una generale e sostanziale approvazione conferita dal’Occidente al regime di Mubarak).

    L’analisi della situazione egiziana non può non partire dal vertice della piramide, Hosni Mubarak. Il ra’is egiziano ha 82 anni, è da trent’anni al potere ed è malato. Inoltre è consapevole del fatto che le elezioni presidenziali in calendario per il 2011, a differenza di quelle che l’hanno confermato al potere nel 1987, nel 1993, nel 1999 e nel 2005 (tra le quali solo quelle del 2005 si sono tenute in un contesto di multipartitismo),  non saranno una formalità e, dovendo porsi seriamente il problema della successione, ha fatto in modo che dalle urne delle elezioni parlamentari egiziane di un mese fa, la fedele cerchia dei suoi uomini  facesse uscire un’assemblea dominata da un virtuale partito unico, capace di gestire senza traumi l’ormai vicino passaggio di poteri. Tutta la comunità internazionale si chiede se lo scettro del potere passerà dal padre Hosni al figlio Gamal, se l’anziano presidente si farà rieleggere, rendendo automatico il subentro di Gamal in caso di morte o impedimento, o ancora se sarà il potente ma fedelissimo generale Omar Suleiman ad emergere.

La risposta ancora non si conosce ma Mubarak ha comunque lanciato un messaggio chiaro, cioè che la successione è affar suo, e non saranno accettate intercessioni da parte di attori esterni al paese. Ha inoltre ricordato agli alleati occidentali che Il Cairo rappresenta un argine irrinunciabile contro i fondamentalismi più o meno qaedisti che si annidano nel Maghreb e nell’Africa sub sahariana. La realpolitik impone effettivamente alle democrazie occidentali di rimettersi alle decisioni di Mubarak.

Il punto debole di Mubarak è dato dal potenziale destabilizzante degli scontri inter-religiosi. I qaedisti vogliono colpire i cristiani simbolo dell’occidente; questo avviene all’interno di una galassia fatta di minoranze corpose ma anche di gruppuscoli fanatizzati che non di rado nella storia egiziana ha innescato spirali distruttive; le lotte interconfessionali – nonostante la tendenziale predisposizione alla convivenza pacifica tra i fedeli delle diverse religioni – potrebbero fare il gioco di chi vuole dar fuoco alle polveri.

Altra fonte di potenziale incertezza per l’Egitto deriva dall’instabilità dei suoi vicini meridionali. Si consideri che l’approvvigionamento idrico di 80 milioni di egiziani dipende dalle acque del Nilo, e che esso, prima di giungere in Egitto, scorre attraverso il Sudan. Finora grazie a una serie di accordi bilaterali con il presidente sudanese Omar Hasan al-Bashir, al Cairo è stato garantito l’approvvigionamento idrico fondamentale per la fiorente agricoltura egiziana, oltre che per i bisogni quotidiani della popolazione. Se, com’è quasi certo, il Sudan del sud otterrà la secessione, le trattative dovranno includere un terzo attore, il Sudan del sud appunto, che potrebbe essere interessato ad avvantaggiare altri paesi rispetto all’Egitto nella corsa al rifornimento delle acque del Nilo, i cui due affluenti si incontrano proprio nella parte meridionale del Sudan.

Tirando le somme, le somiglianze tra l’Egitto di Mubarak e la Tunisia di Ben Ali sono molteplici e rilevanti. Entrambi i paesi sono segnati da regimi longevi e autoritari, con leader brutali ma anagraficamente datati. Lingua (al di là delle differenze dialettali) e religione principali sono la stesse. L’agricoltura e il turismo giocano un ruolo importante nei tessuti economici di entrambi i paesi. Corruzione, poca trasparenza e clientelismo segnano i rapporti lavorativi. I tassi di disoccupazione sono elevati. I giovani costituiscono il gruppo anagrafico più consistente, e la disoccupazione giovanile è alle stelle. La libertà di espressione è del tutto limitata, perché  asservita al potere centrale. Entrambi i paesi sono stati colpiti dalla crisi alimentare mondiale, che ha generato una dolorosa inflazione nei prodotti alimentari basilari.

Certo non mancano le differenze tra i due contesti. L’Egitto è un paese con una popolazione otto volte più numerosa di quella della Tunisia, una superficie dieci volte più estesa e un PIL quasi sei volte più consistente. Non si tratta di semplici dati statistici ma di numeri che hanno delle evidenti e tangibili implicazioni. Il contesto egiziano è molto più complesso: a livello di relazioni internazionali, è legato strettamente all’Occidente, a Israele e al Sudan. A livello religioso, registra la presenza di una forte ed influente minoranza, quella dei cristiani copti (10% della popolazione) – mentre in Tunisia non ci sono minoranze religiose significative. In Egitto sono presenti anche rifugiati palestinesi, iracheni e sudanesi, che interagiscono con le rispettive comunità di provenienza mentre la Tunisia non contiene significati gruppi di rifugiati. L’amministrazione nella Tunisia di Ben Ali era segnata dalla prevalenza della famiglia del presidente e della moglie, che gestiva una serie di rapporti clientelari, mentre in Egitto il tacito patto sociale segnato da una diffusa corruzione si gioca sulla complicità tra l’élite politica, un gruppo di famiglie storicamente facoltose ed influenti e la classe media. In Egitto si registrano anche fenomeni che non appaiono così consistenti in Tunisia, come ad esempio la contrapposizione tra il mondo rurale e quello urbano. La questione palestinese è molto più al centro della vita politica egiziana di quanto lo sia in quella tunisina. L’islamismo estremista militante è influente ed attivo in Egitto, mentre per il momento gioca un ruolo quasi assente in Tunisia.

Per quanto riguarda l’informazione e l’educazione, la popolazione egiziana è però meno istruita di quella tunisina; internet è meno diffuso in Egitto di quanto lo sia in Tunisia; è pur sempre significativo in Tunisia il retaggio della cultura francese, che è giunta sì attraverso il colonialismo, ma ha portato pur sempre ideali quali l’uguaglianza e la giustizia sociale.

Ciononostante l’eco dei recenti avvenimenti tunisini è giunto fino in Egitto ed ha dato coraggio a quanti sperano nel collasso del regime egiziano. Gli egiziani, incollati agli schermi da cui venivano proiettate le immagini da Tunisi, potrebbero aver capito che anche le più insopportabili dittature hanno una fine e che anche per quella egiziana è forse scattato il conto alla rovescia. Non è casuale se negli ultimi giorni si sono ripetute le emulazioni del gesto del tunisino Mohammed Bouazizi: gli Jan Palach dei nostri giorni mirano a colpire la sensibilità delle masse arabe, a diradarne la paura, a rivelare la debolezza dei regimi dittatoriali che opprimono gli arabi. Il fenomeno ha assunto una rilevanza tale che è dovuto intervenire persino il ministro della cultura egiziano Farouk Hosni, colui che si occupa di censurare ogni manifestazione di dissenso lanciata contro il regime di Mubarak. Il ministro-censore ha tentato di ridimensionare la portata di tali eventi, spiegando che in Egitto, a differenza della Tunisia, esiste la libertà d’espressione; a detta del ministro, se si è verificata qualche tensione essa non rappresenta un fenomeno generalizzato bensì un’eccezione nel panorama politico di un paese che sostiene il suo presidente. Ma la realtà è un’altra e anche un’opinione pubblica tradizionalmente rassegnata alla sottomissione come quella egiziana si sta preparando a dimostrarlo.