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domenica 23 gennaio 2011

LA RIVOLUZIONE TUNISINA E IL POTENZIALE EFFETTO DOMINO IN EGITTO: quali le analogie tra la Rivoluzione del gelsomino tunisina e la crisi del regime di Mubarak?

Gli eventi verificatisi in queste ultime settimane in Tunisia, dove le manifestazioni di piazza hanno spinto alla fuga il presidente Zine el Abidine Ben Ali, rappresentano un evento di portata storica per diverse ragioni.

      Innanzitutto si tratta della prima vera rivoluzione popolare avvenuta in un paese arabo. Già in passato alcuni leader arabi a capo di regimi autoritari erano stati costretti ad abdicare; ma per la prima volta l’avvicendamento nella detenzione del potere non è stato causato dall’azione dell’esercito o dall’intervento di una potenza esterna, bensì è il popolo ad essersi collocato al centro della scena.

       In seconda istanza, aspetto non da trascurare, si tratta di manifestazioni di protesta largamente condivise da parte dell’opinione pubblica del mondo arabo. Le contestazioni  che hanno infiammato la scena politica e sociale tunisina potrebbero verosimilmente ripetersi anche in numerosi altri paesi del mondo arabo, essendo molti di questi afflitti da problemi simili: sensibile aumento dei prezzi dei generi alimentari, alti tassi di disoccupazione, negazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali e mancanza di rappresentatività da parte delle élite politiche.

A moltiplicare le implicazioni della crisi tunisina hanno contribuito poi i media, specie il network televisivo Al Jazeera, che seguendo costantemente la crisi, ne ha portato le immagini in milioni di case e ne ha illustrato l’evoluzione in lingua araba, mezzo comunicativo ufficiale di almeno una ventina di paesi. Il pubblico arabo ha seguito con entusiasmo e solidarietà la Rivoluzione del gelsomino, e potrebbe essere tentato a imitare tale esperienza nel proprio paese.
           
    Va sottolineato inoltre l’aspetto psicologico della crisi tunisina: i regimi dittatoriali fondati sull’appoggio delle forze armate si sgretolano rapidamente non appena i cittadini mostrano di non temere più lo scontro con i militari, dimostrando di essere pronti al sacrificio pur di ottenere i loro fini. Il dispotico potere di Ben Ali si è sciolto ben prima della fuga dal paese: la sua autorità si è sbriciolata quando ha dimostrato di temere le reazioni delle masse in seguito al sacrificio di Mohamed Bouazizi, il ragazzo che il 17 dicembre si è dato fuoco in segno di protesta contro la corruzione del regime e la carenza di opportunità lavorative. Ben Ali ha capito che il caso di Bouazizi avrebbe potuto dar vita a proteste generalizzate, così ha tentato di sedarne sul nascere le implicazioni adoperandosi in manifestazioni di solidarietà e comprensione verso la vittima. Così facendo ha però mostrato la sua debolezza di fronte al popolo, che si è reso conto della fragilità del regime ed ha trovato, dopo ventitre anni, la forza di ribellarsi. Non appena questo sottile meccanismo sarà compreso dalle masse di altri paesi, altri rivoluzioni vedranno la luce.

Scenari simili a quelli tunisini potrebbero profilarsi ad esempio in Egitto, dove le somiglianze con la Tunisia sono notevoli: entrambi i paesi sono stati dominati, nel passato recente, da leader longevi e autoritari - il presidente Hosni Mubarak, 82 anni, ha praticamente il monopolio del potere ed è in carica da trent’anni (Ben Ali ne ha 74 ed è rimasto al potere per circa 23 anni). In entrambi i paesi le condizioni economiche sono dure, le autorità corrotte, e poca è la libertà di espressione – giornali e televisioni sono asservite al potere, ridotta è la libertà di espressione, di riunione e associazione ecc. Inoltre entrambi i paesi hanno subito crisi inflattive. In Egitto,  paese che vanta un’enorme importanza nella regione - per i suoi quasi ottanta milioni di abitanti, per la sua storia, per l’influenza culturale in tutto il mondo arabo del suo cinema e dei suoi canali televisivi, nonché per il suo elevato peso politico ed economico-, il prezzo dei generi alimentari è cresciuto sensibilmente già nel 2008, scatenando violente proteste da parte della popolazione civile; solo la prontezza del governo, intervenuto immediatamente per calmierare i prezzi, ha evitato che le sommosse popolari sfociassero in una crisi a livello politico. Ciò non può rappresentare di certo una soluzione definitiva al problema dei costi della produzione agricola e dell’inflazione – il calmieramento dei prezzi non è sostenibile nel medio periodo.

Prima di addentrarsi nell’analisi delle similitudini tra l’arena sociopolitica egiziana e quella tunisina, è forse il caso di spendere qualche parola sulle cosiddette “rivolte del pane”, ovvero quella serie di agitazioni che si ripresentano puntualmente allorché i prezzi dei generi alimentari di base aumentano sensibilmente – avendo questo fenomeno interessato entrambi i paesi. Innanzitutto va sottolineato che le rivolte del pane sono un fenomeno antico e verificatosi in ogni area geografica; in senso lato possono essere definite come i movimenti popolari che avvengono in coincidenza con periodi di carestia. Nell’uso corrente l’espressione “rivolte del pane” include estensivamente le reazioni che scaturiscono in seguito all’aumento del prezzo non solo del grano ma di tutti i principali generi alimentari di prima necessità – zucchero, sale, olio, latte ecc.

Per quanto riguarda le reazioni da parte delle autorità politiche, quest’ultime già in epoca romana si preoccupavano di sedare le agitazioni distribuendo il grano a prezzo calmierato o addirittura gratuito (frumentationes). Ancora oggi questo resta l’espediente cui le élite politiche ricorrono allorché i disordini acquistano una dimensione tale da minacciare la stabilità del loro potere: per fare qualche esempio, tanto Bourguiba (il predecessore di Ben Ali) nel 1983, quanto Mubarak nel 2008, Bouteflika (il presidente algerino al potere dal 1999) il 5 gennaio scorso e Ben Ali alla vigilia della sua fuga (avvenuta il 14 gennaio), si sono preoccupati di annunciare il calmieramento dei prezzi allorché il clima politico nei rispettivi paesi si stava surriscaldando in misura per loro preoccupante. Tali annunci hanno avuto successo, tranne nel caso di Ben Ali la cui autorità era ormai troppo compromessa.

Per un’analisi comparativa tra i moti di piazza che stanno interessando i paesi del Nordafrica e del Medio Oriente, è interessante notare che essi sono tutti, anche se misure diverse, legati alla crisi alimentare mondiale con cui è iniziato il 2011. Sulla consistenza della crisi alimentare mondiale e sul suo carattere globale c’è unanimità di vedute tra gli economisti e osservatori delle relazioni internazionali; l’allineamento viene meno quando si tenta una spiegazione delle cause della crisi. Se è noto che i fenomeni di inflazione sono determinati da un eccesso di domanda rispetto all’offerta, non tutti sono d’accordo sulle cause del fenomeno inflattivo che ha interessato l’indice dei prezzi dei generi alimentari.

Alcuni hanno addotto problemi dal lato dell'offerta (esaurimento delle risorse acquifere e loro distrazione verso le aree urbane); altri hanno messo in risalto il ruolo della speculazione internazionale, che ha ingigantito l'effetto negativo dei primi dati sui raccolti, e quello dell'alto prezzo del petrolio, che ha reso più conveniente investire nei biocarburanti. Altri studi hanno spostato l'attenzione sui fenomeni climatici avversi che hanno colpito Russia, Australia e il continente americano. Volendo sposare questa visione del problema, dato che la produzione di ogni bene agricolo è concentrata in pochi paesi, e che gli effetti del cambiamento climatico si manifesteranno con crescente intensità, la volatilità dei prezzi è da considerarsi un fenomeno ormai radicato e di lungo termine.

Indipendentemente da quali siano le sue cause, quello che rileva rispetto al Nord-Africa e il Medio Oriente, è che l'inflazione legata ai generi alimentari (pari a circa il doppio di quella generale in India, Indonesia e Cina) può mettere a rischio la stabilità politica dei paesi che ne sono colpiti. Tra questi paesi spicca sicuramente l’Egitto.

Il 2011 si annuncia come un momento decisivo per la storia contemporanea egiziana. Sono trascorse poche settimane dall’inizio dell’anno e già si sono verificati eventi che influenzeranno sensibilmente il futuro di questo paese. La stabilità di questo rilevante attore geopolitico è minata dai cronici episodi di violenza a connotazione religiosa (l’ultimo dei quali è la strage dei copti di Alessandria del primo gennaio), dalla probabile secessione di parte del Sudan (cui le vicende egiziane sono strettamente collegate) in seguito al referendum del 15 gennaio, e, soprattutto, dalla intenzione, confermata da diverse fonti, del presidente Mubarak di lasciare il potere dopo quasi trent’anni.

Questi elementi di instabilità potrebbero dar vita a mutamenti radicali simili a quelli registratisi in Tunisia. Dato il peso specifico del paese, le conseguenze di un avvicendamento politico sarebbero ben più rilevanti per tutto il quadro mediorientale. L’Egitto svolge infatti un ruolo chiave all’interno della Lega Araba, di cui è il paese più popoloso e il secondo più ricco in termini di prodotto interno lordo. E’ l’ago della bilancia nel quadro del conflitto israeliano-palestinese, essendo collocato su posizioni favorevoli all’Occidente sin dai tempi degli accordi di Camp David, firmati nel 1979 e culminanti in un trattato di pace israelo-egiziano. Volendo avere una prova dell’importanza dell’Egitto nelle relazioni internazionali, si consideri che se dopo il 1973 non si sono ripetuti conflitti arabo-israeliani, cioè quegli scontri bellici che hanno visto fronteggiarsi da una parte l’esercito israeliano (supportato da alcuni paesi occidentali) e dall’altro gli eserciti di diversi paesi arabi (come avvenuto in occasione della guerra d’indipendenza israeliana del 1948, della guerra scaturita in seguito alla crisi di Suez del 1956, della guerra dei sei giorni del 1967 e della guerra dello Yom Kippur del 1973), ciò si spiega soprattutto con la scelta, operata da Sadat nel ’79 e confermata da Mubarak nel corso degli ultimi trent’anni, di assumere posizioni concilianti nei confronti di Israele (in cambio di generosi aiuti da parte degli Stati Uniti e di una generale e sostanziale approvazione conferita dal’Occidente al regime di Mubarak).

    L’analisi della situazione egiziana non può non partire dal vertice della piramide, Hosni Mubarak. Il ra’is egiziano ha 82 anni, è da trent’anni al potere ed è malato. Inoltre è consapevole del fatto che le elezioni presidenziali in calendario per il 2011, a differenza di quelle che l’hanno confermato al potere nel 1987, nel 1993, nel 1999 e nel 2005 (tra le quali solo quelle del 2005 si sono tenute in un contesto di multipartitismo),  non saranno una formalità e, dovendo porsi seriamente il problema della successione, ha fatto in modo che dalle urne delle elezioni parlamentari egiziane di un mese fa, la fedele cerchia dei suoi uomini  facesse uscire un’assemblea dominata da un virtuale partito unico, capace di gestire senza traumi l’ormai vicino passaggio di poteri. Tutta la comunità internazionale si chiede se lo scettro del potere passerà dal padre Hosni al figlio Gamal, se l’anziano presidente si farà rieleggere, rendendo automatico il subentro di Gamal in caso di morte o impedimento, o ancora se sarà il potente ma fedelissimo generale Omar Suleiman ad emergere.

La risposta ancora non si conosce ma Mubarak ha comunque lanciato un messaggio chiaro, cioè che la successione è affar suo, e non saranno accettate intercessioni da parte di attori esterni al paese. Ha inoltre ricordato agli alleati occidentali che Il Cairo rappresenta un argine irrinunciabile contro i fondamentalismi più o meno qaedisti che si annidano nel Maghreb e nell’Africa sub sahariana. La realpolitik impone effettivamente alle democrazie occidentali di rimettersi alle decisioni di Mubarak.

Il punto debole di Mubarak è dato dal potenziale destabilizzante degli scontri inter-religiosi. I qaedisti vogliono colpire i cristiani simbolo dell’occidente; questo avviene all’interno di una galassia fatta di minoranze corpose ma anche di gruppuscoli fanatizzati che non di rado nella storia egiziana ha innescato spirali distruttive; le lotte interconfessionali – nonostante la tendenziale predisposizione alla convivenza pacifica tra i fedeli delle diverse religioni – potrebbero fare il gioco di chi vuole dar fuoco alle polveri.

Altra fonte di potenziale incertezza per l’Egitto deriva dall’instabilità dei suoi vicini meridionali. Si consideri che l’approvvigionamento idrico di 80 milioni di egiziani dipende dalle acque del Nilo, e che esso, prima di giungere in Egitto, scorre attraverso il Sudan. Finora grazie a una serie di accordi bilaterali con il presidente sudanese Omar Hasan al-Bashir, al Cairo è stato garantito l’approvvigionamento idrico fondamentale per la fiorente agricoltura egiziana, oltre che per i bisogni quotidiani della popolazione. Se, com’è quasi certo, il Sudan del sud otterrà la secessione, le trattative dovranno includere un terzo attore, il Sudan del sud appunto, che potrebbe essere interessato ad avvantaggiare altri paesi rispetto all’Egitto nella corsa al rifornimento delle acque del Nilo, i cui due affluenti si incontrano proprio nella parte meridionale del Sudan.

Tirando le somme, le somiglianze tra l’Egitto di Mubarak e la Tunisia di Ben Ali sono molteplici e rilevanti. Entrambi i paesi sono segnati da regimi longevi e autoritari, con leader brutali ma anagraficamente datati. Lingua (al di là delle differenze dialettali) e religione principali sono la stesse. L’agricoltura e il turismo giocano un ruolo importante nei tessuti economici di entrambi i paesi. Corruzione, poca trasparenza e clientelismo segnano i rapporti lavorativi. I tassi di disoccupazione sono elevati. I giovani costituiscono il gruppo anagrafico più consistente, e la disoccupazione giovanile è alle stelle. La libertà di espressione è del tutto limitata, perché  asservita al potere centrale. Entrambi i paesi sono stati colpiti dalla crisi alimentare mondiale, che ha generato una dolorosa inflazione nei prodotti alimentari basilari.

Certo non mancano le differenze tra i due contesti. L’Egitto è un paese con una popolazione otto volte più numerosa di quella della Tunisia, una superficie dieci volte più estesa e un PIL quasi sei volte più consistente. Non si tratta di semplici dati statistici ma di numeri che hanno delle evidenti e tangibili implicazioni. Il contesto egiziano è molto più complesso: a livello di relazioni internazionali, è legato strettamente all’Occidente, a Israele e al Sudan. A livello religioso, registra la presenza di una forte ed influente minoranza, quella dei cristiani copti (10% della popolazione) – mentre in Tunisia non ci sono minoranze religiose significative. In Egitto sono presenti anche rifugiati palestinesi, iracheni e sudanesi, che interagiscono con le rispettive comunità di provenienza mentre la Tunisia non contiene significati gruppi di rifugiati. L’amministrazione nella Tunisia di Ben Ali era segnata dalla prevalenza della famiglia del presidente e della moglie, che gestiva una serie di rapporti clientelari, mentre in Egitto il tacito patto sociale segnato da una diffusa corruzione si gioca sulla complicità tra l’élite politica, un gruppo di famiglie storicamente facoltose ed influenti e la classe media. In Egitto si registrano anche fenomeni che non appaiono così consistenti in Tunisia, come ad esempio la contrapposizione tra il mondo rurale e quello urbano. La questione palestinese è molto più al centro della vita politica egiziana di quanto lo sia in quella tunisina. L’islamismo estremista militante è influente ed attivo in Egitto, mentre per il momento gioca un ruolo quasi assente in Tunisia.

Per quanto riguarda l’informazione e l’educazione, la popolazione egiziana è però meno istruita di quella tunisina; internet è meno diffuso in Egitto di quanto lo sia in Tunisia; è pur sempre significativo in Tunisia il retaggio della cultura francese, che è giunta sì attraverso il colonialismo, ma ha portato pur sempre ideali quali l’uguaglianza e la giustizia sociale.

Ciononostante l’eco dei recenti avvenimenti tunisini è giunto fino in Egitto ed ha dato coraggio a quanti sperano nel collasso del regime egiziano. Gli egiziani, incollati agli schermi da cui venivano proiettate le immagini da Tunisi, potrebbero aver capito che anche le più insopportabili dittature hanno una fine e che anche per quella egiziana è forse scattato il conto alla rovescia. Non è casuale se negli ultimi giorni si sono ripetute le emulazioni del gesto del tunisino Mohammed Bouazizi: gli Jan Palach dei nostri giorni mirano a colpire la sensibilità delle masse arabe, a diradarne la paura, a rivelare la debolezza dei regimi dittatoriali che opprimono gli arabi. Il fenomeno ha assunto una rilevanza tale che è dovuto intervenire persino il ministro della cultura egiziano Farouk Hosni, colui che si occupa di censurare ogni manifestazione di dissenso lanciata contro il regime di Mubarak. Il ministro-censore ha tentato di ridimensionare la portata di tali eventi, spiegando che in Egitto, a differenza della Tunisia, esiste la libertà d’espressione; a detta del ministro, se si è verificata qualche tensione essa non rappresenta un fenomeno generalizzato bensì un’eccezione nel panorama politico di un paese che sostiene il suo presidente. Ma la realtà è un’altra e anche un’opinione pubblica tradizionalmente rassegnata alla sottomissione come quella egiziana si sta preparando a dimostrarlo.

1 commento:

  1. Caro Mattia,
    complimenti per la tua iniziativa! Spero tu possa portarla avanti, arricchirla e renderla spazio di discussione sul tema che proponi: l'unico modo di fare cultura è condividere cultura.
    Come sai non ho competenza diretta della materia che tratti, ma ho seguito l'evolversi della situazione tunisina sui giornali e tramite la mailing list di un'associazione alla quale mi sono iscritto. Un'analisi geopolitica puntuale come questa mi mancava (una lettera di una ragazza parigina, che se vorrai ti girerò, mi ha chiarito i motivi dell'atteggiamento ambiguo della stampa e politica europea a riguardo).
    Leggendo l'articolo, da profano, mi è tornato alla mente un discorso nel quale Cacciari sosteneva che il tempo presente è una compresenza di più tempi diversi. Ciò che per noi, occidentali ab urbe condita, è un deja vu raccontato in pagine e pagine della nostra storia, per il popolo tunisino è oggi un fatto nuovo.
    Contestualizzazione che si rivela necessaria perché, sebbene viviamo tempi diversi, oggi condividiamo un unico spazio: il globo. La relazione che tu evidenzi tra i fatti tunisini e la situazione politica, economica, climatica globale è molto rilevante. Più che di effetto domino parlerei di effetto farfalla. Tanto abusato nella narrativa, credo sia ancora utile nell'analisi di un sistema complesso come quello globale: una minima variazione genera enormi cambiamenti. Non solo nei paesi arabi.

    Herbert

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