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domenica 23 gennaio 2011

L’ITALIA DI FRONTE ALLA RIVOLUZIONE TUNISINA: L’ENNESIMA OPPORTUNITA’ MANCATA?

    Le sommosse popolari che hanno recentemente scosso la Tunisia, innescando in questo paese importanti cambiamenti a livello politico-istituzionale, rappresentano uno degli eventi più significativi e potenzialmente gravidi di conseguenze registratisi negli ultimi decenni nell’area del Maghreb. 

   Innanzitutto si consideri che gli avvicendamenti nella detenzione del potere non costituiscono di certo un fatto all’ordine del giorno nel contesto nord-africano – basti ricordare che in Egitto Hosni Mubarak ricopre la carica di presidente dal 1981 e che il colonnello Mu’ammar Gheddafi è guida della rivoluzione libica sin dal 1969. Prima della sua improvvisa interruzione, la presidenza di Zine El-Abidine Ben Ali procedeva nel solco di questa tradizione: assunte le redini del potere nel novembre del 1987 in seguito al colpo di stato “medico” ai danni di Bourguiba, Ben Ali è stato a capo della repubblica presidenziale tunisina fino al 14 gennaio scorso, quando, per evitare guai peggiori, ha abbandonato la carica e il paese ed è riparato in Arabia Saudita. 

    A conferma dell’estrema rilevanza caratterizzante la crisi tunisina, si osservi che le condizioni che hanno portato prima alle proteste, poi a un vero e proprio sollevamento da parte della popolazione civile – aumento repentino e vertiginoso dei prezzi dei generi alimentari e di prima necessità, disoccupazione giovanile, diffusa corruzione, negazione dei più basilari diritti civili e politici – non sono certo una peculiarità del contesto tunisino, bensì possono essere rintracciate anche in altri paesi non distanti geograficamente e culturalmente dalla Tunisia. A detta di alcuni autorevoli osservatori dello scacchiere politico internazionale non è da escludersi che nei prossimi mesi si possano verificare situazioni analoghe in Egitto e in Algeria, come per effetto di una sorta di “effetto domino”.

     Forse per la prima volta nella storia un paese arabo è stato teatro di una rivoluzione popolare. La “rivoluzione di luglio” con cui l’Egitto pose fine all’occupazione britannica, sbarazzandosi di re Faruq, non fu in realtà una rivoluzione ma un colpo di stato dell’esercito. Così si può dire di una serie di “rivoluzioni” avvenute nel mondo arabo, guidate da militari in abiti civili. Nel caso della Rivoluzione del gelsomino – appellativo dato dalla stampa internazionale ai recenti fatti tunisini – il ruolo di protagonista è stato giocato dal popolo.

      Se l’importanza della questione tunisina pare del tutto evidente, molto meno nitide sembrano invece le conseguenze che potrebbero prodursi sul piano regionale. In un contesto tanto complicato e ricco di variabili quanto quello nord-africano e mediorientale, cimentarsi in intricate analisi di scenario è impresa tanto ambiziosa quanto delicata: il rischio che le previsioni siano smentite dal corso degli eventi è troppo elevato. Tanto più se si considera che nemmeno gli effetti dell’allontanamento di Ben Ali dal potere sono facilmente rintracciabili. La fluidità che ha caratterizzato il quadro politico tunisino negli ultimi giorni non permette infatti di destreggiarsi in letture sufficientemente attendibili: dopo la fuga di Ben Ali la carica di presidente supplente, assunta inizialmente dal primo ministro Ghannouchi, è passata successivamente al presidente della camera Mebazaa. Il dibattito politico ruota intorno al problema della formazione di un governo transitorio di unità nazionale che includa le opposizioni e che conduca la Tunisia alle prime elezioni politiche libere che si terranno tra qualche mese. L’arena politica tunisina è segnata dallo scontro tra forze conservatrici e forze progressiste: le prime, corrispondenti a figure di primo piano del Raggruppamento Costituzionale Democratico (RCD), il partito dominante durante il lungo regime di Ben Ali, mirano a mantenere le redini del potere; le seconde sono composte invece da tutti i partiti che per anni si sono battuti contro l’ex presidente e sono supportate da un popolo disposto a pagare a caro prezzo per la propria libertà. Dagli esiti di tale scontro dipendono le sorti della questione tunisina. Se e in quale misura l’allontanamento di Ben Ali determinerà una vera e propria rivoluzione politica in Tunisia è ancora tutto da verificare.

     Date l’incertezza che caratterizza il futuro della Tunisia e l’aleatorietà delle implicazioni della crisi tunisina nel quadro nord-africano e mediorientale, è altresì preferibile concentrarsi su eventi già avvenuti. La Rivoluzione del gelsomino, a dimostrazione della sua estrema rilevanza a livello storico e politico, è state studiata sotto molteplici prospettive da parte della stampa nazionale e internazionale; pare però latitare un’analisi sul comportamento tenuto dall’Italia durante la crisi. 

     Com’è noto, la Tunisia è da sempre un paese vicino all’Italia. Vicino innanzitutto in senso geografico, considerando che l’isola di Pantelleria si trova a soli 70 chilometri al largo della penisola tunisina e che tra questa e la Sicilia non intercorrono più di 100 chilometri. Vicino anche da un punto di vista economico: l’Italia rappresenta il secondo partner commerciale per la Tunisia sia in termini di esportazioni che di importazioni. Vicino infine anche e soprattutto se si osservano le relazioni tra i due paesi da una prospettiva storica: percorrendo a ritroso il corso dei secoli, si noterà che i momenti di contatto sono numerosi e significativi. Per ritrovare tracce consistenti di Tunisia nella nostra storia non è necessario risalire alle dominazioni arabe che hanno caratterizzato il Medioevo della Sicilia e di altre regioni meridionali, o addirittura alle guerre puniche combattute durante l’epoca repubblicana della Roma antica. E’ sufficiente fermarsi al XIX secolo, quando si recò in Tunisia un numero talmente vasto di italiani, che tale comunità di emigranti assunse un peso economico e sociale determinante in molti settori della vita sociale del paese. 

      L’italiano divenne addirittura la lingua franca nel settore del commercio e in quello della politica e della diplomazia. Ai primi italiani, commercianti e professionisti giunti all’inizio dell’’800 in cerca di nuove opportunità, si aggiunsero poi esuli politici in fuga dalla repressione scatenata dagli stati italiani durante il processo di unificazione del nostro paese; sul finire del secolo, in seguito alle difficoltà economiche e alla crisi sociale venutasi a creare nelle regioni meridionali del nuovo Stato, si riversarono in Tunisia decine di migliaia di italiani, soprattutto siciliani e sardi, che emigrarono in gran numero tanto che il consolato italiano contò, nei primissimi anni del ‘900, più di 80.000 connazionali residenti. La presenza degli italiani fu determinante, infatti, nel processo di modernizzazione culturale ed economica del paese.

      Le vicende storiche consumatesi nel corso del XX secolo hanno portato a una sensibile riduzione della presenza italiana in Tunisia; ciò non toglie che i circa 3.000 italiani che attualmente vivono in Tunisia - di cui circa 900 appartengono alla vecchia comunità - rappresentano la seconda minoranza presente sul suolo tunisino dopo quella francese. Il tratto caratterizzante l’esperienza dalla comunità italiana è che essa, sin dagli ultimi anni dell’’800, si è inserita fra i tunisini colonizzati e i francesi colonizzatori. La convivenza fra gruppi di diversa provenienza culturale ha fatto sì che si sviluppasse fra gli italiani un modo di vivere particolare, poiché questa comunità ha impregnato la cultura locale e, pur mantenendo la propria specificità, ha saputo accogliere e far proprie istanze culturali appartenenti alle altre comunità presenti sul territorio tunisino. Da qui deriva la grande ascendenza che il nostro paese ancor’oggi produce sulla Tunisia, testimoniata dalle statistiche economiche sugli scambi bilaterali, dalla forte presenza di imprese italiane e dall’attivismo della comunità di italiani residenti in Tunisia.

    Considerata la consistenza delle relazioni tra i due paesi, risulta logico chiedersi quale sia stata la valutazione data dal governo italiano agli importanti eventi recentemente verificatisi in Tunisia, quali le prese di posizione, quali le eventuali reazioni a livello politico. A nostro modo di vedere l’Italia non sta cogliendo una serie di occasioni di portata storica: quella di rivedere e correggere la propria posizione rispetto a un regime deprecabile come quello di Ben Alì; quella di rimediare all’errore commesso nel dare un sostegno saldo e duraturo a questo regime - alla cui genesi l’Italia ha probabilmente contribuito - riscattandosi di fronte al popolo tunisino; quella di dare una svolta alla nostra politica estera, contrassegnata da due anni a questa parte da una serie di iniziative infruttuose, da un allineamento su posizioni di convenienza e da una certa indolenza; e infine quella, mai banale, di schierarsi dalla parte della giustizia e dei diritti dei popoli.

     Tali valutazioni derivano da un’analisi delle dichiarazioni, dei comunicati, e delle interviste recentemente concesse del nostro ministro degli esteri Franco Frattini. Va innanzitutto premesso che Frattini si è sempre espresso a favore di Ben Ali, definendo in diverse occasioni “eccellenti” i rapporti intrattenuti tra l’ex presidente e il nostro governo. Ciò desta diverse perplessità, se si considera la vocazione fortemente antidemocratica del regime di Ben Alì. Nei suoi 23 anni di governo egli si è preoccupato di soffocare ogni opposizione, aumentando il controllo sui media e sui partiti politici rivali e rifiutando una qualsiasi riforma politica in senso democratico. La Tunisia appariva come una repubblica democratica solo sulla carta, come risulta evidente se si considera che le consultazioni elettorali presidenziali non hanno mai prodotto un suffragio inferiore all’89% a favore di Ben Ali. Molte sparizioni, omicidi e casi di tortura sono stati segnalati dalle più autorevoli organizzazioni per i diritti umani.

     A titolo esemplificativo della posizione ufficiale del nostro governo rispetto alla crisi tunisina, si considerano alcune prese di posizione emesse ufficialmente dalla Farnesina e dal suo vertice, il ministro degli esteri. Di fatto Frattini ha emesso dichiarazioni a sostegno di Ben Alì fino al giorno della fuga del dittatore dalla Tunisia. Ancora il 12 gennaio, due giorni prima dell’allontanamento dal potere dell’ormai ex dittatore, il nostro ministro degli esteri, pur essendo sotto gli occhi di tutto il mondo le terribili violenze perpetrate ai danni della popolazione civile, se da un lato sottolineava l’esigenza di “condannare senza se e senza ma ogni forma di violenza contro civili innocenti”, dall’altro sosteneva con convinzione la necessità di “sostenere un governo come quello della Tunisia che ha pagato un prezzo di sangue per il terrorismo”. In pratica, da una parte Frattini rimbrottava Ben Ali, dall’altro ne tesseva le lodi per l’impegno profuso nella lotta ai movimenti islamisti negli anni ’90 (poco importa che questi siano appoggiati da una parte consistente della popolazione e che la loro repressione sia avvenuta ricorrendo a mezzi illeciti). Un atteggiamento che lascia basiti se si pensa alle decine di civili caduti nell’ultimo mese sotto i colpi della polizia del dittatore tunisino, che tra l’altro non si è fatto sfuggire l’occasione di ordinare ai suoi di sparare alla folla. Lascia basiti perché l’Italia, dal dopoguerra ad oggi, ha sempre aderito ai più significativi accordi internazionali in tema di diritti umani, come ad esempio la Dichiarazione universale dei diritti umani del ’48, la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici del ’66, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea firmata a Nizza nel 2000 e così via. L’impegno nel campo della salvaguardia dei diritti umani, che sulla carta appare come la stella polare della nostra politica estera, viene messo in secondo piano allorché si tratta di ottenere vantaggi e facilitazioni – come quelli offerti da Ben Ali, che per anni ha garantito un concreto e tangibile supporto nella lotta all’immigrazione clandestina, una delle crociate del nostro governo.

      Solo all’indomani della fuga di Ben Ali Frattini tentava fuori tempo massimo di correggere il tiro, dichiarando: “sincero ed amichevole appello va alle diverse istituzioni del paese e a tutte le componenti della società tunisine alla calma, alla moderazione e al dialogo, per ricercare attraverso quest'ultimo la via d'uscita dalla difficile situazione venutasi a creare in questi giorni. L'Italia rispetta pienamente la sovranità del popolo tunisino a cui é particolarmente legato da una profonda amicizia e umana vicinanza. L'Italia sosterrà, come sempre, le scelte del popolo tunisino che auspica fortemente vadano sulla strada della democrazia e della pacifica convivenza”. 
 
       Il rinsavimento di Frattini risulta, oltre che tardivo, interessato e perciò poco   credibile. Per quanto riguarda la tempistica, anche volendo sposare la logica del tutto pragmatica che ha caratterizzato l’approccio italiano, risulta evidente la lentezza di riflessi dimostrata dalla nostra diplomazia, che non è stata in grado di intuire, nonostante non ne mancassero affatto le premesse, il cambiamento ai vertici del potere in Tunisia.

     Oltre a ciò, è innegabile che la Farnesina si sia spesa in qualche ponderazione a sostegno del popolo tunisino solo quando ha compreso che in Tunisia si era verificato un cambiamento istituzionale. Poiché il prossimo leader non sarà un dittatore privo di legittimazione democratica e facilmente malleabile a seconda degli interessi italiani, bensì scaturirà della volontà popolare espressa attraverso consultazioni elettorali, il nostro ministero degli esteri ha ben pensato che forse era il caso di adoperarsi in qualche manifestazione di solidarietà rispetto al popolo artefice della cosiddetta rivoluzione del gelsomino. Difficile credere che dichiarazioni tanto tardive quanto poco spontanee possano sgomberare dalle ombre del passato recente il terreno delle relazioni con il prossimo leader tunisino.

    Per comprendere le cause dell’atteggiamento italiano, è necessario richiamare le condizioni storiche che hanno permesso al regime di Ben Ali di formarsi e di durare così a lungo. Ben Ali ha preso il potere il 7 novembre del 1987; al suo colpo di stato hanno contribuito non poco alcune ingerenze esterne. In un momento storico in cui la nuova ondata di sentimenti islamici si affermava con vigore nel Nord Africa, soprattutto in Algeria (dove i movimenti islamisti avrebbero dato vita a una lunga e sanguinosa guerra civile), le minacce di repressione brutale di Bourguiba, il predecessore di Ben Ali, facevano temere che si esacerbasse lo scontro fra i movimenti politici di matrice islamica e i regimi dell'Algeria e della stessa Tunisia, che si professava laica e filo-occidentale.

       Ciò avrebbe avuto delle conseguenze negative su tutta l’area, oltre che sui paesi della sponda nord del Mediterraneo più vicini al Maghreb, come la Francia e l’Italia. Fu in questo clima che, come successivamente confermato dagli stessi vertici dei Servizi segreti italiani, il governo di Roma si impegnò a creare le basi per l’ascesa al potere di Ben Ali, vedendo in lui un uomo d'ordine. Il curriculum di Ben Ali come presidente è, come si è detto, caratterizzato dal quasi totale annientamento delle forze di opposizione politica e civile interna. Nonostante il presunto processo di riforma magnificato dal dittatore, ciò che avrebbe dovuto portare a una democratizzazione del paese, la Tunisia è scesa agli ultimi posti nelle classifiche mondiali che misurano le libertà politiche e civili. Certo, durante questi anni Tunisi ha anche conosciuto buoni livelli di crescita economica e sviluppo sociale. Ma allo stesso tempo Ben Ali non si è veramente preoccupato di accompagnare questi risultati parzialmente positivi in una riforma politica e istituzionale.

  Il regime sopravviveva anche grazie alla complicità e all’alleanza con l’Occidente. Soprattutto da parte dell’ex madrepatria Francia e dell’Italia: insieme, solo Parigi e Roma rappresentano quasi il 40% del volume totale del commercio tunisino. Senza dimenticare il ruolo degli gli Stati Uniti: dopo l’attentato dell’11 settembre e la paranoia islamofobica nel quadro della guerra al terrorismo, la Tunisia, campione di laicismo e vincitrice nella lotta contro l’islamismo attivista, non poteva non essere un alleato strategico nell’area.

      In questo modo Ben Ali è riuscito a mantenere il potere per più di vent’anni. Negli anni del regime è riuscito a costruire una serie di relazioni di tipo clientelare, che assicuravano a lui stesso la permanenza al potere e a chi si affiliava al partito posti di lavoro e incarichi nella burocrazia pubblica - almeno fin quando la gestione del mercato del lavoro non è divenuta impossibile, come accaduto ultimamente. Questo è uno dei più grandi motivi che ha portato la popolazione a ribellarsi: non una semplice “rivolta del pane”, bensì una rivoluzione volta a rovesciare l’impianto personalistico e clientelare generato da Ben Ali e dai suoi uomini.

       Questa è la natura di un regime con il quale l’Italia ha sempre mantenuto ottimi rapporti. Anche l’ambasciatore americano a Tunisi, come emerso dai cabli rivelati da WikiLeaks, ha definito quello di Ben Ali come un “regime sclerotico e corrotto”, in balia della famiglia “quasi mafiosa” dell’eterno presidente Ben Ali. Le rivelazioni targate WikiLeaks hanno confermato inoltre che l’Italia non ha mai smesso di foraggiare il regime di Ben Ali – atteggiamento condiviso dalla Francia ma osteggiato da Gran Bretagna e Germania-, in cambio di concessioni in campo energetico e del sostegno nella lotta contro l’immigrazione clandestina. 

     La Farnesina ha giustificato l’amicizia con Ben Ali adducendo che il suo regime si è sempre adoperato a fondo nella lotta al fondamentalismo islamico: giustificazione che appare del tutto strumentale, semplicemente perché Ben Ali ha usato nel corso dei suoi 23 anni al potere gli stessi mezzi cui ricorrono i movimenti terroristici (con l’unica differenza che vi è potuto ricorrere impunemente e legalmente). Evitiamo di chiederci in quale misura l’immigrazione clandestina e il terrorismo costituiscano minacce per la sicurezza del nostro paese: la risposta è forse troppo passibile di parzialità di natura politica. Ammesso che esse costituiscano dei seri pericoli per la sicurezza dell’Italia, ciò ci legittima ad appoggiare qualunque leader si unisca al nostro paese nella lotta al terrorismo e all’immigrazione clandestina, indipendentemente dai mezzi da egli utilizzati nell’esercizio del potere?

     In ultima istanza, l’atteggiamento dell’Italia rispetto alla Rivoluzione del gelsomino getta delle ombre inquietanti sull’operato del nostro governo in politica estera: chi ritiene che l’Italia si spenda in certe dichiarazioni di principio (sui diritti umani, sulla democrazia ecc.) per puro opportunismo (cioè per non perdere l’allineamento dalle posizioni di Unione Europea e Stati Uniti), e che invece concentri la maggior parte delle proprie energie nel tentativo di strappare concessioni e agevolazioni – specie a livello energetico - a regimi corrotti e antidemocratici come quello di Gheddafi in Libia e di Putin/Medvedev in Russia, a scapito degli impegni assunti e propagandati nel campo dei diritti umani e delle libertà fondamentali, ha un altro fondato argomento a sostegno della propria convinzione.

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