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domenica 20 febbraio 2011

L'ALGERIA TRA EFFETTO DOMINO E ISTERIA MEDIATICA

Sabato 12 febbraio si è tenuta ad Algeri una marcia di protesta contro il governo di Abdelaziz Bouteflika, presidente dell’Algeria dal 1999. La manifestazione è stata organizzata da un ampio numero di raggruppamenti sociali: sindacati, associazioni di studenti, organizzazioni a tutela dei diritti dell’uomo e partiti d’opposizione, tra cui l’influente Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia guidato dal berbero Said Sadi, sono scesi in piazza per reclamare democrazia e libertà. Le rivendicazioni di questi gruppi riguardano in particolare l’abolizione dello stato di emergenza vigente dal 1992, cioè dall’inizio della guerra civile che ha insanguinato l’Algeria per circa 10 anni provocando più di 150.000 vittime. A ciò si accompagna la richiesta di un ricambio generazionale tra le fila del governo e di una maggiore inclusione dei partiti d’opposizione nella vita politica del paese.

            Risulta impossibile fornire stime attendibili sull’adesione alla marcia sia perché è mancata una copertura mediatica degna di nota, sia perché la partecipazione della popolazione è stata del tutto contenuta. Ciò è stato riconosciuto non solo dai media algerini ufficiali, filo-presidenziali, ma anche da quelli potenzialmente ostili all’amministrazione di Bouteflika. Ad esempio, il giornale online Depeche Kabylie, berbero, dunque tendenzialmente contrario al governo, ha definito la marcia un non-evento.[1] Se è vero che da un lato la marcia era stata già annunciata da diverse settimane e che ciò ha consentito al governo di prendere tutte le contromisure del caso, dall’altro effettivamente gli algerini hanno reagito tiepidamente all’invito a manifestare. Certo il blocco di molti treni che portano alla capitale, la chiusura di diversi quartieri e il dispiegamento di circa 25.000 unità pronte a sedare sul nascere ogni tentativo di destabilizzazione non hanno agevolato la manifestazione. Ma al di là di queste contromisure resta l’impressione che il popolo algerino abbia voluto consapevolmente fare un passo indietro: in altre parole gli algerini, a differenza di tunisini ed egiziani, hanno volontariamente evitato che si creassero contrasti irreversibili con l’élite al potere.

            Al di là della manifestazione in sé vale la pena di commentare la copertura che le è stata offerta da parte dei principali mezzi di comunicazione. E’ interessante notare che, nonostante il suo parziale fallimento, la marcia è stata descritta con toni sensazionalistici da buona parte dei media italiani e internazionali.[2] Questo non può che stupire se si considera che in Algeria non sta accadendo niente di paragonabile a quanto verificatosi di recente in Tunisia ed Egitto.  

L’impressione è che si sia cercato di cavalcare l’onda del clamore destato dalle vicende egiziane – il giorno prima Mubarak aveva annunciato le sue dimissioni - per allargare l’attenzione, dunque la richiesta di informazioni da parte degli utenti, anche ad altri teatri, tra cui quello algerino.
           
Gli esempi a suffragio di questa ipotesi sono numerosi: citiamo i lavori svolti da una celebre società radiotelevisiva e da un noto settimanale, entrambi britannici.[3][4] Essi si sono prodigati nell’elaborazione di modelli la cui pretesa è quella di indicare quali saranno i prossimi paesi del mondo arabo a vivere rivoluzioni simili a quella tunisina ed egiziana. Ogni paese è stato classificato in base ai dati attinenti alla percentuale di giovani nella popolazione totale, alla diffusione di internet, alla durata del regime attualmente al potere e così via; in base a tali valori, che vorrebbero rappresentare dei criteri per la determinazione del grado di instabilità dei vari contesti sociopolitici, è stata stilata una classifica che ordina i paesi in base alla probabilità che in essi si verifichi una rivoluzione.

            Questi prodotti giornalistici rappresentano solo alcuni dei sintomi della patologia che sta affliggendo l’approccio dell’opinione pubblica occidentale rispetto alle rivoluzioni in atto nel mondo arabo: pare di assistere al diffondersi di una rara specie di isteria mediatica, a un’epidemia di ansia da notizia. Giornali e canali televisivi – denotando tra l’altro una certa insensibilità rispetto al fatto che le rivolte comportano inevitabilmente un alto spargimento di sangue - sembrano provare un certo piacere nel prodursi in elucubrazioni su quali saranno i prossimi regimi a cadere sotto la scure dell’effetto domino. Si tratta di un piacere senza scrupoli, dato che le notizie vengono gonfiate ad arte, tanto da assumere dimensioni del tutto distanti da quelle reali: la manifestazione tenutasi il 12 febbraio ad Algeri è stata fatta passare per una svolta nella storia dell’Algeria mentre non rappresenta che un evento tutto sommato privo di conseguenze, tanto che già il giorno seguente il paese era tornato alla normalità.

Nell’analizzare le rivolte che si stanno registrando in alcuni paesi arabi si è ricorso abbondantemente al concetto di effetto domino, che indica una reazione a catena lineare che si verifica quando un piccolo cambiamento è in grado di produrre a sua volta un altro cambiamento analogo, dando origine ad una sequenza lineare. Perché questo meccanismo si scateni, è indispensabile che vi sia un concatenamento tra le varie tessere del domino: effettivamente esiste un forte legame tra la Rivoluzione del gelsomino tunisina, l’insurrezione di piazza Tahrir al Cairo e le manifestazioni tenutesi ad Amman, Tripoli ed Algeri. I paesi del mondo arabo condividono lingua, religione, tessuto culturale e mezzi di comunicazione: di conseguenza le idee circolano fluidamente da un paese all’altro. Analizzando le statistiche, si osserva che gran parte del mondo arabo si contraddistingue per un’età media molto bassa, alti tassi di disoccupazione e la presenza di élite devote all’autoritarismo.

            Per quanto riguarda l’Algeria, essa ha giocato un ruolo fondamentale nel contesto delle rivolte che stanno scuotendo il mondo arabo: ricorrendo alla metafora dell’effetto domino, si può affermare che questa repubblica nordafricana ha rappresentato la prima tessera che con il suo movimento ha prodotto una reazione a catena negli altri paesi arabi. Infatti a cavallo tra gli ultimi giorni di dicembre e i primi di gennaio Algeri ed altre città sono state teatro di violente proteste: un gran numero di algerini è sceso in piazza per denunciare la disoccupazione dilagante, la mancanza di alloggi, l’improvviso e doloroso aumento del prezzo dei beni di prima necessità e le restrizioni nella libertà di parola. Questa sfida aperta all’autorità del governo è stata poi imitata in vari altri paesi.

            Ciò non deve portare all’erronea e frettolosa conclusione che in Algeria si stiano producendo cambiamenti simili a quelli verificatisi in Tunisia ed Egitto. Il ricorso alla metafora dell’effetto domino può essere utile fintantoché si mira a descrivere quella serie di caratteristiche comuni ai vari teatri delle rivolte, ma non deve portare a generalizzazioni: si deve tener conto della specificità di ogni paese. La formulazione di previsioni cui si assiste quotidianamente seguendo i maggiori media pare avere il fine strumentale di fomentare il desiderio di informazione da parte dell’utente: pur di alimentare questo bisogno, non ci si fa scrupolo della veridicità delle notizie emesse. Pertanto le previsioni elaborate assomigliano a delle profezie: hanno cioè un grado di scientificità solo apparente, perché non considerano la storia dei paesi interessati, né tanto meno i meccanismi psicologici in essi operanti. Ci sono aspetti che non possono essere misurati con semplici dati statistici.

            I processi politici non operano meccanicamente. Se per l’analisi politica fosse sufficiente la lettura dei dati demografici ed anagrafici, Bouteflika dovrebbe essere già in esilio e storici e studiosi di scienze politiche farebbero bene a cambiare lavoro. Certamente in Algeria non mancano i fattori di tensione: dalla carenza di abitazioni all’alta disoccupazione giovanile, dalle limitazioni alla libertà di espressione all’alto costo dei generi alimentari, dalla corruzione alla mancanza di rinnovamento politico.

Ma d’altra parte il governo di Bouteflika pare mantenere un certo consenso nell’opinione pubblica algerina. Ciò avviene per una serie di ragioni. Innanzitutto, per quanto riguarda l’emergenza abitativa, gli algerini riconoscono che negli ultimi anni il governo è ricorso a una rilevante spesa pubblica volta alla costruzione di migliaia di nuovi alloggi. Inoltre è sotto gli occhi di tutti che l’approvvigionamento di acqua potabile e di gas raggiunge tutte le case, ciò che non avviene in altri paesi della regione.

In seconda istanza anche l’edilizia pubblica è stata sovvenzionata dal governo. Attualmente gli algerini possono usufruire di un gran numero di scuole, università e centri culturali, ciò che era inimmaginabile fino a qualche anno fa. Anche la rete dei trasporti sta subendo un importante potenziamento.

A differenza di altri paesi del mondo arabo, l’Algeria presenta uno stato sociale molto solido. Gli studenti ad esempio godono di molte agevolazioni: per loro i mezzi di trasporto pubblici sono gratuiti e le case dello studente forniscono posti letto a prezzi molto contenuti.

Per quanto riguarda il conflitto latente tra berberi ed arabi, esso è stato in buona parte risolto allorché, nel 2002, si è concessa la possibilità dell’insegnamento scolastico della lingua berbera, riconosciuta come seconda lingua ufficiale.

Ma il merito maggiore che l’opinione pubblica algerina riconosce al regime di Bouteflika, è, molto semplicemente, quello di aver portato la pace. Come già ricordato, l’Algeria è stata teatro di una sanguinosa guerra civile per più di dieci anni. In seguito alla vittoria elettorale riportata dal Fronte Islamico di Salvezza nel 1991, il paese è stato dilaniato da un lancinante conflitto in cui si sono fronteggiati fondamentalisti islamici da una parte e movimenti politici di ispirazione nazionalista e laicista dall’altra. Omicidi, torture, violenze di ogni genere e attentati terroristici sono stati parte della quotidianità degli algerini per più di dieci anni, lasciando una traccia indelebile nell’immaginario collettivo. L’elezione di Bouteflika nel 1999 ha rappresentato l’ascesa di una figura politica capace di mettere fine nel giro di pochi mesi a queste atrocità.

Quello che l’opinione pubblica tributa al suo presidente è un risultato enorme. Il popolo algerino non si esime certo dal reclamare un miglioramento delle condizioni economiche e una maggiore democratizzazione della vita politica del paese. Ma d’altra parte, memore del grande traguardo raggiunto da Bouteflika, la pace, si guarda bene dal voltare le spalle al suo presidente. Un’analisi politica lucida e onesta del contesto algerino non può prescindere dal valutare questo elemento psicologico.

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