Mohamed Omar è un ragazzo egiziano di ventotto anni. Dopo la laurea in economia e commercio è partito per il nostro paese con un obiettivo: assicurarsi un futuro stabile, degno, all’altezza delle sue capacità – un sogno negato alla maggior parte dei suoi coetanei egiziani. Arrivato a Perugia, ha frequentato brillantemente l’Università per Stranieri, laureandosi in Lingua e cultura italiana.
Nel corso della sua esperienza italiana, ha dovuto contare solo su se stesso. Per finanziare i suoi studi ha fatto i lavori più disparati: è stato muratore, lavapiatti, cuoco, operaio in fabbrica. La sua famiglia ha origini contadine – come del resto la quasi tutte le famiglie egiziane - ed è originaria di una città industriale, El-Mahalla El-Kubra, situata sul delta del Nilo e nota perché sede della più grande compagnia egiziana nel settore tessile.
Attualmente Mohamed frequenta, da beneficiario di una borsa di studio concessagli per i suoi meriti accademici, il master in Internazionalizzazione dell’impresa nell’area del Mediterraneo organizzato dall’Università di Stranieri di Perugia con il patrocinio della SIMEST, Società Italiana per le Imprese all’Estero. Negli ultimi anni l’Italia è diventata il primo partner commerciale dell’Egitto a livello europeo e secondo tra i Paesi occidentali dopo gli Stati Uniti, e Mohamed spera, grazie alle sue competenze linguistiche e alla sua preparazione in materia economica, di trovare un impiego nel campo delle relazioni bilaterali tra Italia ed Egitto.
Ci siamo incontrati per parlare della sollevazione popolare nata sull’onda della Rivoluzione del gelsomino tunisina e che sta cambiando la storia dell’Egitto e del Medio Oriente. Sulla portata epocale della crisi egiziana non ci sono dubbi: rappresenta un punto di non ritorno per la vita politica egiziana e un fattore di destabilizzazione per tutta l’area mediorientale, dove l’Egitto di Mubarak rappresenta la testa di ponte del sistema di alleanze americano nonché il termometro delle relazioni arabo-israeliane.
La padronanza con cui parla la lingua italiana mette l’interlocutore a suo agio, domande e risposte si susseguono fluidamente, senza intoppi e incomprensioni. Mentre parla intuisco la mole di lavoro e di sacrifici cui ha dovuto far fronte per raggiungere questo eccellente livello di conoscenza della nostra lingua.
Mohamed non ama i giri di parole, è laconico e diretto nell’esprimere le sue idee. Lo sguardo è sicuro, le opinioni, taglienti, sono espresse con fermezza. La voce non tradisce particolari emozioni, se non quando rivela la rabbia rispetto alla condizione di milioni di egiziani che vivono sotto la soglia di povertà e la frustrazione di una generazione, la sua, formata da studenti qualificati ma senza prospettive.
D: Mohamed, è un piacere poter raccogliere le tue impressioni su quello che sta succedendo in Egitto. Quali sono le tue sensazioni rispetto agli eventi degli ultimi giorni?
R: Provo dolore per i miei connazionali immolatisi prima dell’inizio della rivolta e per quelli caduti durante gli scontri (NDR almeno cento, forse 150, come riportato da autorevoli agenzie di stampa internazionali) e sono preoccupato per i miei cari. Per sedare la rivolta, per evitare che l’informazione circoli liberamente, il governo ha tagliato internet e anche le comunicazioni per alcune compagnie di telefonia mobile, quindi le notizie arrivano confuse e frammentate. Ma oltre al dolore e alla preoccupazione quello che sento è un profondo orgoglio e rispetto per il popolo egiziano che si sta sollevando per cambiare la propria condizione.
D: A cosa ti riferisci?
R: Mi riferisco al fatto che milioni, forse decine di milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà. Il nostro è un paese potenzialmente ricco, abbiamo molte risorse: i porti, il turismo, un’agricoltura fiorente, siamo autosufficienti in campo energetico. Ma i salari rimangono bassissimi mentre l’inflazione è alle stelle.
D: La stampa internazionale pone l'accento sul fatto che il governo ha bloccato l’inflazione grazie al calmieramento dei prezzi dei prodotti di base.
R: Non è così, o comunque questo corrisponde solo parzialmente alla realtà. I prezzi continuano a fluttuare; per farti un esempio, i miei genitori mi hanno detto che due settimane fa il prezzo di un chilo di pomodori ha superato la soglia dei due euro, in linea con i prezzi italiani. Ma i salari egiziani sono più di dieci volte inferiori a quelli italiani. Oggi il dollaro vale sei lire egiziane, l’euro otto, ma dieci anni fa la nostra moneta valeva il doppio. E comunque anche la manipolazione artificiosa dei prezzi rivela la debolezza del governo, che non può permettere che il mercato determini i prezzi con la naturale interazione tra domanda e offerta.
D: La povertà diffusa è l’unico problema?
R: La povertà è un problema enorme. Chi ha un lavoro vede il proprio stipendio dissolversi già alla seconda settimana del mese. Le paghe sono assolutamente inadeguate rispetto al costo della vita. Ma povertà ed eccessivo costo della vita non sono l’unico problema. Una delle più grandi questioni irrisolte riguarda la situazione di milioni di giovani che non riescono a trovare un lavoro.
D: Qual è l’ampiezza di questo fenomeno?
R: Si tratta di un fenomeno che ha una portata enorme, la disoccupazione interessa un giovane su due e il governo non ha adottato nessuna misura per contrastarla. Le risorse del paese non sono usate per creare lavoro: una parte viene assorbita dalle imprese straniere che effettuano investimenti in Egitto senza che ci sia una ricaduta positiva sul paese. Un’altra parte rilevante viene usata per mantenere la polizia che protegge Mubarak e il suo entourage. Le privatizzazioni selvagge degli ultimi anni non hanno fatto che aggravare la situazione.
D: La disoccupazione riguarda solo i giovani o colpisce tutti gli egiziani?
R: Il tasso di disoccupazione generale si attesta ufficialmente poco oltre il 10%. A prescindere dall’attendibilità di questi dati, quello che noi egiziani percepiamo è che, per quanto riguarda i giovani, metà di essi siano disoccupati. Non si parla d’altro. In Egitto molti dei miei amici non hanno prospettive, io stesso ho preferito cercare la mia strada altrove, il mercato del lavoro è apparentemente saturo. I giovani sono disperati e le proteste di questi giorni sono portate avanti proprio da questa massa di disoccupati senza un futuro. A cosa serve la vita se non puoi lasciare un’impronta in questo mondo?
D: Eppure la stampa internazionale descrive il quadro egiziano come un caso di relativa prosperità nel contesto arabo.
R: Il regime di Mubarak è amico dell’Occidente, di cui fa gli interessi in campo politico, garantendo la pace con Israele, ed economico, aprendo agli investimenti stranieri. Se la stampa occidentale dipinge la situazione egiziana in questo modo, è solo per legittimare la presenza di un dittatore in un paese alleato. Le statistiche sul PIL non tengono conto dell’ingiusta distribuzione della ricchezza che si ha nel mio paese. Le risorse sono in mano a un’élite formata da poche persone. Dall’altra parte c’è la società vera, composta anche da milioni di affamati. Possiamo schematizzare la società egiziana dividendola in alcune classi.
Ci sono i contadini, che vivono per lo più lungo il Nilo e sono in gran parte analfabeti, perciò controllabili. Vivono in un mondo chiuso, non si rendono conto della loro miseria, perciò sono tradizionalmente favorevoli a Mubarak. Coltivando i campi riescono a sostenersi, a sopravvivere con i frutti del loro lavoro, e questo è per loro sufficiente; non li preoccupa il fatto che siano altri a decidere della loro vita, e i problemi delle altre classi non li riguardano.
Come ho già detto, c’è poi un esercito di affamati che vive sotto la soglia della povertà.
C’è una classe media, creata ai tempi di Nasser, che si sta riducendo e appiattendo verso la povertà. Prendiamo una famiglia del ceto medio: vive in città, il padre ha un lavoro discreto nell’amministrazione. I suoi figli però stentano a trovare lavoro, quindi a uscire di casa, a rendersi autonomi. Hanno i mezzi culturali per aspirare a una posizione decente, spesso sono qualificati, ma non hanno prospettive. Le proteste provengono innanzitutto da questa classe, che non accetta l’assenza di possibilità. In questi giorni lo scontro generazionale è cessato, perché anche i genitori si sono resi conto che la situazione è insostenibile. Anche la tradizionale contrapposizione tra campagna e città è venuta meno, i numeri delle manifestazioni parlano chiaro, tutto il popolo vuole un cambiamento.
D: Vedi un legame tra la rivoluzione tunisina e quello che sta succedendo in Egitto?
R: Certamente. Innanzitutto il background culturale, religioso e linguistico è lo stesso. Inoltre i due paesi hanno in comune l’assenza di democrazia, la presenza di regimi longevi e autoritari, la disoccupazione giovanile, l’inflazione ecc. Grazie a internet e ad Al Jazeera le notizie sulla rivoluzione tunisina sono arrivate in Egitto. Anche gli egiziani, di solito abituati e rassegnati alla sottomissione, hanno preso coraggio. La gente non ha più paura e sfida apertamente il governo.
D: Al di là degli eventi delle ultime settimane, che ruolo ha avuto l’opposizione in questi anni?
R: Nell’ultimo decennio la manifestazione di opinioni avverse al regime era ammessa, ma era destinata a non produrre alcuna conseguenza. In pratica si poteva criticare liberamente il regime, ovviamente con accortezza, ma mai questo avrebbe prestato ascolto alle richieste della gente. L’opposizione è stata combattuta e sedata attraverso la propaganda di regime. L’unico movimento sempre fedele a se stesso nell’opposizione al governo è stato quello dei Fratelli Musulmani; fin dall'ascesa al potere Mubarak l’ha temuto e per questo ha sempre mantenuto lo stato di emergenza nazionale (NDR vigente dal 1981, data dell’assassinio dell’ex presidente di Sadat e dell’ascesa a presidente di Mubarak) che permette di usare il pugno duro contro gli oppositori. La cricca di Mubarak non si cura minimamente dei problemi del paese, della fame, della disoccupazione, dell’inflazione. Al massimo cerca di limitare le situazioni negative affinché il malcontento non sfoci in un’aperta opposizione che possa metterne a rischio il potere.
D: Quale ruolo ha il parlamento? Non rappresenta anche le istanze dell’opposizione?
R: Il parlamento è uno specchietto per le allodole. Serve a far credere all’opinione pubblica occidentale, di fronte alla quale le classi politiche americana ed europea devono giustificare l’amicizia con la dittatura di Mubarak, che questo regime è aperto, che sta confluendo verso i valori democratici. Ma non è così, il parlamento non svolge alcuna funzione. L’opposizione è sterilizzata dal monopolio dei media; le elezioni sono truccate. La vera opposizione viene dai movimenti extraparlamentari, come Kefaya, il Movimento politico per il cambiamento, che si oppone al passaggio di consegne da Hosni Mubarak al figlio Gamal ventilato nei mesi scorsi. C’è il movimento del 6 aprile, nato nel 2008 in reazione al forte aumento dei prezzi dei beni di prima necessità che si verificò in quell’anno. C’è il partito di El Baradei, una figura di prestigio a livello internazionale che si auspica una transizione democratica. E ci sono i Fratelli musulmani.
D: A proposito dei Fratelli Musulmani, pensi che rappresentino davvero un pericolo per la società egiziana, come descritto da parte dei media occidentali? Se arrivassero al potere, nel dopo Mubarak, cosa significherebbe per il futuro del paese?
R: Credo che quello della presunta minaccia rappresentata dai Fratelli Musulmani e dai movimenti terroristici islamici sia un tema utilizzato strumentalmente dai politici occidentali per legittimare, di fronte all’opinione pubblica cui devono rispondere, il protrarsi della dittatura di Mubarak.
D: La strage dei copti non è indice dell’inaffidabilità dei gruppi politici di matrice islamica?
R: Onestamente metto in dubbio la ricostruzione che è stata data dalla stampa rispetto a questo drammatico avvenimento. Non sono sicuro che siano stati gruppi terroristici di matrice islamica. Ho il sospetto che i mandanti siano altri, che sia un episodio creato ad arte per giustificare l’esistenza del regime di Mubarak, il paladino della lotta ai gruppi terroristici, di fronte ad americani ed europei. In questi giorni di caos totale, in cui le forze dell’ordine non hanno ben sotto controllo la situazione, perché i gruppi fondamentalisti non ne approfittano per fare altre stragi di cristiani, se la loro eliminazione è davvero il loro obiettivo? Gli egiziani cristiani e musulmani hanno sempre convissuto pacificamente. Da quanti anni c’è l’Islam in Egitto? Mille e trecento. Eppure ci sono ancora almeno dodici milioni di cristiani in Egitto.
D: Ti auspichi che siano gruppi di matrice religiosa a succedere a Mubarak?
R: Non è questo il punto. Credo che la mia religione, quella musulmana, non rappresenti alcun ostacolo per la vita politica di un paese. La religione è come un semaforo, così come questo regola il traffico, essa regola il comportamento delle persone. Il precetto “non rubare” deriva da una norma di senso comune ma anche da un principio di origine religiosa. Non c’è niente di male se i politici seguono un comportamento ispirato all’etica della religione islamica. L’importante è che anche le altre comunità religiose siano rispettate e salvaguardate, com’è sempre stato per i cristiani.
D: La situazione dei cristiani egiziani preoccupa l’opinione pubblica occidentale. Come descriveresti la convivenza tra cristiani copti e musulmani in Egitto?
R: Pacifica. Prendi il mio esempio. Sono musulmano sunnita ma ho frequentato una scuola che si trovava nel cortile di una chiesa copta. Molti miei compagni di classe erano cristiani copti. Molti miei amici sono copti.
D: E questo non è dovuto anche al carattere laico del regime di Mubarak?
R: Il regime di Mubarak dura da trent’anni, ma non è eterno. Già prima ci sono stati secoli di convivenza pacifica tra cristiani e musulmani. Chi protegge i cristiani non è Mubarak, ma è il popolo egiziano.
D: Credi che Mubarak riuscirà a tenere in pugno la situazione? Quale evoluzione prevedi?
R: Fare previsioni è davvero molto difficile. So solo che la l’incertezza prevarrà a lungo. Milioni di persone, come me, sono nate sotto Mubarak e non hanno mai conosciuto altro regime. Non siamo un popolo abituato ai cambiamenti. Gli egiziani non sono abituati a decidere per loro stessi. Negli ultimi cinquant’anni, sebbene sia venuta meno l’influenza dei regimi coloniali, siamo sempre stati governati da militari. La leadership egiziana si è sempre affermata con il potere delle armi, mai come espressione della volontà del popolo. Sempre che sia un obiettivo davvero raggiungibile, la distanza tra l’Egitto e la democrazia è enorme. Ci vorrebbe un processo di transizione graduale.
D: A prescindere dalla crisi attuale, il malcontento verso Mubarak è sempre stato così forte, anche se magari sommerso?
R: No, la situazione economica del paese è precipitata negli ultimi dieci anni. Prima la gente sosteneva il presidente; ma nell’ultimo decennio i consensi sono scesi inesorabilmente, anche se ufficialmente tutto andava bene e il presidente veniva eletto con percentuali altissime. I fenomeni di cui ti ho parlato, come l’inflazione, la povertà, la disoccupazione, la corruzione, sono diventati più consistenti negli ultimi anni. Mubarak è invecchiato, ha ottantadue anni, non ha più la forza per dirigere un paese di ottanta milioni di persone. Progressivamente il potere, pur rimasto simbolicamente nelle sue mani, è passato al suo entourage, alla polizia di regime, a una serie di famiglie ricche, a uomini d’affari corrotti e senza scrupoli che si sono arricchiti indebitamente. Chi ne ha fatto le spese è la gente comune, che ora non ne può più. La rabbia è tanta, il paese sta scoppiando, una delle sfide più impegnative in questo momento è quella di contenere la rabbia del popolo egiziano.
D: Qual è il ruolo dell’esercito?
R: L’esercito ha peso fondamentale. I soldati hanno il potere delle armi, quello egiziano è uno degli eserciti più numerosi al mondo, il più forte nel mondo arabo.
D: Mubarak non si è preoccupato di tenerlo a bada?
R: Certo, e non dimenticare che Mubarak viene dall’esercito. Ma nel corso degli anni si è servito sempre di più della polizia per proteggersi e sedare le rivolte. L’esercito è ben visto dalla popolazione, mentre la polizia di regime è odiata. Ma, a prescindere dall’appoggio o meno dato a Mubarak dall’esercito, questo potrebbe comunque fare ben poco contro la rivolta di milioni di persone disperate e pronte al sacrificio.
D: E’ la fine per Mubarak?
R: Il suo primo errore strategico è stato concedere la possibilità che si tenessero elezioni parlamentari nel 2005. Per quanto falsate e mosse da fini strumentali, esse hanno fatto germogliare nell’inconscio del popolo egiziano l’idea che un cambiamento è possibile. Venendo al 2008, in concomitanza con la crisi alimentare mondiale, si è verificata una sollevazione popolare molto forte, di cui si è parlato in tutto il mondo. La mia città, El-Mahalla El-Kubra è stata l’epicentro della rivolta. Vi si trova il più grande impianto tessile di tutto l’Egitto, dove lavorano decine di migliaia di operai. Chiedevano aumenti perché il loro stipendio raggiungeva a malapena il corrispettivo di cinquanta euro al mese. Le proteste sono state represse con la forza ma hanno lasciato un ricordo indelebile nelle menti di molti egiziani. Ora, grazie alle notizie giunte dalla Tunisia, la gente si è fatta coraggio ed è decisa a cambiare la storia.
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