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domenica 30 gennaio 2011

“A COSA SERVE LA TUA VITA SE NON PUOI LASCIARE UN’IMPRONTA IN QUESTO MONDO?”: Intervista a uno studente egiziano sulle sommosse che stanno scuotendo il regime di Mubarak

Mohamed Omar è un ragazzo egiziano di ventotto anni. Dopo la laurea in economia e commercio è partito per il nostro paese con un obiettivo: assicurarsi un futuro stabile, degno, all’altezza delle sue capacità – un sogno negato alla maggior parte dei suoi coetanei egiziani. Arrivato a Perugia, ha frequentato brillantemente l’Università per Stranieri, laureandosi in Lingua e cultura italiana.

Nel corso della sua esperienza italiana, ha dovuto contare solo su se stesso. Per finanziare i suoi studi ha fatto i lavori più disparati: è stato muratore, lavapiatti, cuoco, operaio in fabbrica. La sua famiglia ha origini contadine – come del resto la quasi tutte le famiglie egiziane - ed è originaria di una città industriale, El-Mahalla El-Kubra, situata sul delta del Nilo e nota perché sede della più grande compagnia egiziana nel settore tessile.

Attualmente Mohamed frequenta, da beneficiario di una borsa di studio concessagli per i suoi meriti accademici, il master in Internazionalizzazione dell’impresa nell’area del Mediterraneo organizzato dall’Università di Stranieri di Perugia con il patrocinio della SIMEST, Società Italiana per le Imprese all’Estero. Negli ultimi anni l’Italia è diventata il primo partner commerciale dell’Egitto a livello europeo e secondo tra i Paesi occidentali dopo gli Stati Uniti, e Mohamed spera, grazie alle sue competenze linguistiche e alla sua preparazione in materia economica, di trovare un impiego nel campo delle relazioni bilaterali tra Italia ed Egitto.

            Ci siamo incontrati per parlare della sollevazione popolare nata sull’onda della Rivoluzione del gelsomino tunisina e che sta cambiando la storia dell’Egitto e del Medio Oriente. Sulla portata epocale della crisi egiziana non ci sono dubbi: rappresenta un punto di non ritorno per la vita politica egiziana e un fattore di destabilizzazione per tutta l’area mediorientale, dove l’Egitto di Mubarak rappresenta la testa di ponte del sistema di alleanze americano nonché il termometro delle relazioni arabo-israeliane.

La padronanza con cui parla la lingua italiana mette l’interlocutore a suo agio, domande e risposte si susseguono fluidamente, senza intoppi e incomprensioni. Mentre parla intuisco la mole di lavoro e di sacrifici cui ha dovuto far fronte per raggiungere questo eccellente livello di conoscenza della nostra lingua.
           
Mohamed non ama i giri di parole, è laconico e diretto nell’esprimere le sue idee. Lo sguardo è sicuro, le opinioni, taglienti, sono espresse con fermezza. La voce non tradisce particolari emozioni, se non quando rivela la rabbia rispetto alla condizione di milioni di egiziani che vivono sotto la soglia di povertà e la frustrazione di una generazione, la sua, formata da studenti qualificati ma senza prospettive.

D: Mohamed, è un piacere poter raccogliere le tue impressioni su quello che sta succedendo in Egitto. Quali sono le tue sensazioni rispetto agli eventi degli ultimi giorni?

R: Provo dolore per i miei connazionali immolatisi prima dell’inizio della rivolta e per quelli caduti durante gli scontri (NDR almeno cento, forse 150, come riportato da autorevoli agenzie di stampa internazionali) e sono preoccupato per i miei cari. Per sedare la rivolta, per evitare che l’informazione circoli liberamente, il governo ha tagliato internet e anche le comunicazioni per alcune compagnie di telefonia mobile, quindi le notizie arrivano confuse e frammentate. Ma oltre al dolore e alla preoccupazione quello che sento è un profondo orgoglio e rispetto per il popolo egiziano che si sta sollevando per cambiare la propria condizione.

D: A cosa ti riferisci?

R: Mi riferisco al fatto che milioni, forse decine di milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà. Il nostro è un paese potenzialmente ricco, abbiamo molte risorse: i porti, il turismo, un’agricoltura fiorente, siamo autosufficienti in campo energetico. Ma i salari rimangono bassissimi mentre l’inflazione è alle stelle.

D: La stampa internazionale pone l'accento sul fatto che il governo ha bloccato l’inflazione grazie al calmieramento dei prezzi dei prodotti di base.

R: Non è così, o comunque questo corrisponde solo parzialmente alla realtà. I prezzi continuano a fluttuare; per farti un esempio, i miei genitori mi hanno detto che due settimane fa il prezzo di un chilo di pomodori ha superato la soglia dei due euro, in linea con i prezzi italiani. Ma i salari egiziani sono più di dieci volte inferiori a quelli italiani. Oggi il dollaro vale sei lire egiziane, l’euro otto, ma dieci anni fa la nostra moneta valeva il doppio. E comunque anche la manipolazione artificiosa dei prezzi rivela la debolezza del governo, che non può permettere che il mercato determini i prezzi con la naturale interazione tra domanda e offerta.

D: La povertà diffusa è l’unico problema?

R: La povertà è un problema enorme. Chi ha un lavoro vede il proprio stipendio dissolversi già alla seconda settimana del mese. Le paghe sono assolutamente inadeguate rispetto al costo della vita. Ma povertà ed eccessivo costo della vita non sono l’unico problema. Una delle più grandi questioni irrisolte riguarda la situazione di milioni di giovani che non riescono a trovare un lavoro.

D: Qual è l’ampiezza di questo fenomeno?

R: Si tratta di un fenomeno che ha una portata enorme, la disoccupazione interessa un giovane su due e il governo non ha adottato nessuna misura per contrastarla. Le risorse del paese non sono usate per creare lavoro: una parte viene assorbita dalle imprese straniere che effettuano investimenti in Egitto senza che ci sia una ricaduta positiva sul paese. Un’altra parte rilevante viene usata per mantenere la polizia che protegge Mubarak e il suo entourage. Le privatizzazioni selvagge degli ultimi anni non hanno fatto che aggravare la situazione.

D: La disoccupazione riguarda solo i giovani o colpisce tutti gli egiziani?

R: Il tasso di disoccupazione generale si attesta ufficialmente poco oltre il 10%. A prescindere dall’attendibilità di questi dati, quello che noi egiziani percepiamo è che, per quanto riguarda i giovani, metà di essi siano disoccupati. Non si parla d’altro. In Egitto molti dei miei amici non hanno prospettive, io stesso ho preferito cercare la mia strada altrove, il mercato del lavoro è apparentemente saturo. I giovani sono disperati e le proteste di questi giorni sono portate avanti proprio da questa massa di disoccupati senza un futuro. A cosa serve la vita se non puoi lasciare un’impronta in questo mondo?

D: Eppure la stampa internazionale descrive il quadro egiziano come un caso di relativa prosperità nel contesto arabo.

R: Il regime di Mubarak è amico dell’Occidente, di cui fa gli interessi in campo politico, garantendo la pace con Israele, ed economico, aprendo agli investimenti stranieri. Se la stampa occidentale dipinge la situazione egiziana in questo modo, è solo per legittimare la presenza di un dittatore in un paese alleato. Le statistiche sul PIL non tengono conto dell’ingiusta distribuzione della ricchezza che si ha nel mio paese. Le risorse sono in mano a un’élite formata da poche persone. Dall’altra parte c’è la società vera, composta anche da milioni di affamati. Possiamo schematizzare la società egiziana dividendola in alcune classi.
Ci sono i contadini, che vivono per lo più lungo il Nilo e sono in gran parte analfabeti, perciò controllabili. Vivono in un mondo chiuso, non si rendono conto della loro miseria, perciò sono tradizionalmente favorevoli a Mubarak. Coltivando i campi riescono a sostenersi, a sopravvivere con i frutti del loro lavoro, e questo è per loro sufficiente; non li preoccupa il fatto che siano altri a decidere della loro vita, e i problemi delle altre classi non li riguardano.
Come ho già detto, c’è poi un esercito di affamati che vive sotto la soglia della povertà.
C’è una classe media, creata ai tempi di Nasser, che si sta riducendo e appiattendo verso la povertà. Prendiamo una famiglia del ceto medio: vive in città, il padre ha un lavoro discreto nell’amministrazione. I suoi figli però stentano a trovare lavoro, quindi a uscire di casa, a rendersi autonomi. Hanno i mezzi culturali per aspirare a una posizione decente, spesso sono qualificati, ma non hanno prospettive. Le proteste provengono innanzitutto da questa classe, che non accetta l’assenza di possibilità. In questi giorni lo scontro generazionale è cessato, perché anche i genitori si sono resi conto che la situazione è insostenibile. Anche la tradizionale contrapposizione tra campagna e città è venuta meno, i numeri delle manifestazioni parlano chiaro, tutto il popolo vuole un cambiamento.

D: Vedi un legame tra la rivoluzione tunisina e quello che sta succedendo in Egitto?

R: Certamente. Innanzitutto il background culturale, religioso e linguistico è lo stesso. Inoltre i due paesi hanno in comune l’assenza di democrazia, la presenza di regimi longevi e autoritari, la disoccupazione giovanile, l’inflazione ecc. Grazie a internet e ad Al Jazeera le notizie sulla rivoluzione tunisina sono arrivate in Egitto. Anche gli egiziani, di solito abituati e rassegnati alla sottomissione, hanno preso coraggio. La gente non ha più paura e sfida apertamente il governo.

D: Al di là degli eventi delle ultime settimane, che ruolo ha avuto l’opposizione in questi anni?

R: Nell’ultimo decennio la manifestazione di opinioni avverse al regime era ammessa, ma era destinata a non produrre alcuna conseguenza. In pratica si poteva criticare liberamente il regime, ovviamente con accortezza, ma mai questo avrebbe prestato ascolto alle richieste della gente. L’opposizione è stata combattuta e sedata attraverso la propaganda di regime. L’unico movimento sempre fedele a se stesso nell’opposizione al governo è stato quello dei Fratelli Musulmani; fin dall'ascesa al potere Mubarak l’ha temuto e per questo ha sempre mantenuto lo stato di emergenza nazionale (NDR vigente dal 1981, data dell’assassinio dell’ex presidente di Sadat e dell’ascesa a presidente di Mubarak) che permette di usare il pugno duro contro gli oppositori. La cricca di Mubarak non si cura minimamente dei problemi del paese, della fame, della disoccupazione, dell’inflazione. Al massimo cerca di limitare le situazioni negative affinché il malcontento non sfoci in un’aperta opposizione che possa metterne a rischio il potere.

D: Quale ruolo ha il parlamento? Non rappresenta anche le istanze dell’opposizione?

R: Il parlamento è uno specchietto per le allodole. Serve a far credere all’opinione pubblica occidentale, di fronte alla quale le classi politiche americana ed europea devono giustificare l’amicizia con la dittatura di Mubarak, che questo regime è aperto, che sta confluendo verso i valori democratici. Ma non è così, il parlamento non svolge alcuna funzione. L’opposizione è sterilizzata dal monopolio dei media; le elezioni sono truccate. La vera opposizione viene dai movimenti extraparlamentari, come Kefaya, il Movimento politico per il cambiamento, che si oppone al passaggio di consegne da Hosni Mubarak al figlio Gamal ventilato nei mesi scorsi. C’è il movimento del 6 aprile, nato nel 2008 in reazione al forte aumento dei prezzi dei beni di prima necessità che si verificò in quell’anno. C’è il partito di El Baradei, una figura di prestigio a livello internazionale che si auspica una transizione democratica. E ci sono i Fratelli musulmani.

D: A proposito dei Fratelli Musulmani, pensi che rappresentino davvero un pericolo per la società egiziana, come descritto da parte dei media occidentali? Se arrivassero al potere, nel dopo Mubarak, cosa significherebbe per il futuro del paese?

R: Credo che quello della presunta minaccia rappresentata dai Fratelli Musulmani e dai movimenti terroristici islamici sia un tema utilizzato strumentalmente dai politici occidentali per legittimare, di fronte all’opinione pubblica cui devono rispondere, il protrarsi della dittatura di Mubarak.

D: La strage dei copti non è indice dell’inaffidabilità dei gruppi politici di matrice islamica?

R: Onestamente metto in dubbio la ricostruzione che è stata data dalla stampa rispetto a questo drammatico avvenimento. Non sono sicuro che siano stati gruppi terroristici di matrice islamica. Ho il sospetto che i mandanti siano altri, che sia un episodio creato ad arte per giustificare l’esistenza del regime di Mubarak, il paladino della lotta ai gruppi terroristici, di fronte ad americani ed europei. In questi giorni di caos totale, in cui le forze dell’ordine non hanno ben sotto controllo la situazione, perché i gruppi fondamentalisti non ne approfittano per fare altre stragi di cristiani, se la loro eliminazione è davvero il loro obiettivo? Gli egiziani cristiani e musulmani hanno sempre convissuto pacificamente. Da quanti anni c’è l’Islam in Egitto? Mille e trecento. Eppure ci sono ancora almeno dodici milioni di cristiani in Egitto.

D: Ti auspichi che siano gruppi di matrice religiosa a succedere a Mubarak?

R: Non è questo il punto. Credo che la mia religione, quella musulmana, non rappresenti alcun ostacolo per la vita politica di un paese. La religione è come un semaforo, così come questo regola il traffico, essa regola il comportamento delle persone. Il precetto “non rubare” deriva da una norma di senso comune ma anche da un principio di origine religiosa. Non c’è niente di male se i politici seguono un comportamento ispirato all’etica della religione islamica. L’importante è che anche le altre comunità religiose siano rispettate e salvaguardate, com’è sempre stato per i cristiani.

D: La situazione dei cristiani egiziani preoccupa l’opinione pubblica occidentale. Come descriveresti la convivenza tra cristiani copti e musulmani in Egitto?


R: Pacifica. Prendi il mio esempio. Sono musulmano sunnita ma ho frequentato una scuola che si trovava nel cortile di una chiesa copta. Molti miei compagni di classe erano cristiani copti. Molti miei amici sono copti.


D: E questo non è dovuto anche al carattere laico del regime di Mubarak?

R: Il regime di Mubarak dura da trent’anni, ma non è eterno. Già prima ci sono stati secoli di convivenza pacifica tra cristiani e musulmani. Chi protegge i cristiani non è Mubarak, ma è il popolo egiziano.

D: Credi che Mubarak riuscirà a tenere in pugno la situazione? Quale evoluzione prevedi?

R: Fare previsioni è davvero molto difficile. So solo che la l’incertezza prevarrà a lungo. Milioni di persone, come me, sono nate sotto Mubarak e non hanno mai conosciuto altro regime. Non siamo un popolo abituato ai cambiamenti. Gli egiziani non sono abituati a decidere per loro stessi. Negli ultimi cinquant’anni, sebbene sia venuta meno l’influenza dei regimi coloniali, siamo sempre stati governati da militari. La leadership egiziana si è sempre affermata con il potere delle armi, mai come espressione della volontà del popolo. Sempre che sia un obiettivo davvero raggiungibile, la distanza tra l’Egitto e la democrazia è enorme. Ci vorrebbe un processo di transizione graduale.

D: A prescindere dalla crisi attuale, il malcontento verso Mubarak è sempre stato così forte, anche se magari sommerso?

R: No, la situazione economica del paese è precipitata negli ultimi dieci anni. Prima la gente sosteneva il presidente; ma nell’ultimo decennio i consensi sono scesi inesorabilmente, anche se ufficialmente tutto andava bene e il presidente veniva eletto con percentuali altissime. I fenomeni di cui ti ho parlato, come l’inflazione, la povertà, la disoccupazione, la corruzione, sono diventati più consistenti negli ultimi anni. Mubarak è invecchiato, ha ottantadue anni, non ha più la forza per dirigere un paese di ottanta milioni di persone. Progressivamente il potere, pur rimasto simbolicamente nelle sue mani, è passato al suo entourage, alla polizia di regime, a una serie di famiglie ricche, a uomini d’affari corrotti e senza scrupoli che si sono arricchiti indebitamente. Chi ne ha fatto le spese è la gente comune, che ora non ne può più. La rabbia è tanta, il paese sta scoppiando, una delle sfide più impegnative in questo momento è quella di contenere la rabbia del popolo egiziano.

D: Qual è il ruolo dell’esercito?

R: L’esercito ha peso fondamentale. I soldati hanno il potere delle armi, quello egiziano è uno degli eserciti più numerosi al mondo, il più forte nel mondo arabo.  

D: Mubarak non si è preoccupato di tenerlo a bada?


R: Certo, e non dimenticare che Mubarak viene dall’esercito. Ma nel corso degli anni si è servito sempre di più della polizia per proteggersi e sedare le rivolte. L’esercito è ben visto dalla popolazione, mentre la polizia di regime è odiata. Ma, a prescindere dall’appoggio o meno dato a Mubarak dall’esercito, questo potrebbe comunque fare ben poco contro la rivolta di milioni di persone disperate e pronte al sacrificio.


D: E’ la fine per Mubarak?

R: Il suo primo errore strategico è stato concedere la possibilità che si tenessero elezioni parlamentari nel 2005. Per quanto falsate e mosse da fini strumentali, esse hanno fatto germogliare nell’inconscio del popolo egiziano l’idea che un cambiamento è possibile. Venendo al 2008, in concomitanza con la crisi alimentare mondiale, si è verificata una sollevazione popolare molto forte, di cui si è parlato in tutto il mondo. La mia città, El-Mahalla El-Kubra è stata l’epicentro della rivolta. Vi si trova il più grande impianto tessile di tutto l’Egitto, dove lavorano decine di migliaia di operai. Chiedevano aumenti perché il loro stipendio raggiungeva a malapena il corrispettivo di cinquanta euro al mese. Le proteste sono state represse con la forza ma hanno lasciato un ricordo indelebile nelle menti di molti egiziani. Ora, grazie alle notizie giunte dalla Tunisia, la gente si è fatta coraggio ed è decisa a cambiare la storia.

domenica 23 gennaio 2011

LA RIVOLUZIONE TUNISINA E IL POTENZIALE EFFETTO DOMINO IN EGITTO: quali le analogie tra la Rivoluzione del gelsomino tunisina e la crisi del regime di Mubarak?

Gli eventi verificatisi in queste ultime settimane in Tunisia, dove le manifestazioni di piazza hanno spinto alla fuga il presidente Zine el Abidine Ben Ali, rappresentano un evento di portata storica per diverse ragioni.

      Innanzitutto si tratta della prima vera rivoluzione popolare avvenuta in un paese arabo. Già in passato alcuni leader arabi a capo di regimi autoritari erano stati costretti ad abdicare; ma per la prima volta l’avvicendamento nella detenzione del potere non è stato causato dall’azione dell’esercito o dall’intervento di una potenza esterna, bensì è il popolo ad essersi collocato al centro della scena.

       In seconda istanza, aspetto non da trascurare, si tratta di manifestazioni di protesta largamente condivise da parte dell’opinione pubblica del mondo arabo. Le contestazioni  che hanno infiammato la scena politica e sociale tunisina potrebbero verosimilmente ripetersi anche in numerosi altri paesi del mondo arabo, essendo molti di questi afflitti da problemi simili: sensibile aumento dei prezzi dei generi alimentari, alti tassi di disoccupazione, negazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali e mancanza di rappresentatività da parte delle élite politiche.

A moltiplicare le implicazioni della crisi tunisina hanno contribuito poi i media, specie il network televisivo Al Jazeera, che seguendo costantemente la crisi, ne ha portato le immagini in milioni di case e ne ha illustrato l’evoluzione in lingua araba, mezzo comunicativo ufficiale di almeno una ventina di paesi. Il pubblico arabo ha seguito con entusiasmo e solidarietà la Rivoluzione del gelsomino, e potrebbe essere tentato a imitare tale esperienza nel proprio paese.
           
    Va sottolineato inoltre l’aspetto psicologico della crisi tunisina: i regimi dittatoriali fondati sull’appoggio delle forze armate si sgretolano rapidamente non appena i cittadini mostrano di non temere più lo scontro con i militari, dimostrando di essere pronti al sacrificio pur di ottenere i loro fini. Il dispotico potere di Ben Ali si è sciolto ben prima della fuga dal paese: la sua autorità si è sbriciolata quando ha dimostrato di temere le reazioni delle masse in seguito al sacrificio di Mohamed Bouazizi, il ragazzo che il 17 dicembre si è dato fuoco in segno di protesta contro la corruzione del regime e la carenza di opportunità lavorative. Ben Ali ha capito che il caso di Bouazizi avrebbe potuto dar vita a proteste generalizzate, così ha tentato di sedarne sul nascere le implicazioni adoperandosi in manifestazioni di solidarietà e comprensione verso la vittima. Così facendo ha però mostrato la sua debolezza di fronte al popolo, che si è reso conto della fragilità del regime ed ha trovato, dopo ventitre anni, la forza di ribellarsi. Non appena questo sottile meccanismo sarà compreso dalle masse di altri paesi, altri rivoluzioni vedranno la luce.

Scenari simili a quelli tunisini potrebbero profilarsi ad esempio in Egitto, dove le somiglianze con la Tunisia sono notevoli: entrambi i paesi sono stati dominati, nel passato recente, da leader longevi e autoritari - il presidente Hosni Mubarak, 82 anni, ha praticamente il monopolio del potere ed è in carica da trent’anni (Ben Ali ne ha 74 ed è rimasto al potere per circa 23 anni). In entrambi i paesi le condizioni economiche sono dure, le autorità corrotte, e poca è la libertà di espressione – giornali e televisioni sono asservite al potere, ridotta è la libertà di espressione, di riunione e associazione ecc. Inoltre entrambi i paesi hanno subito crisi inflattive. In Egitto,  paese che vanta un’enorme importanza nella regione - per i suoi quasi ottanta milioni di abitanti, per la sua storia, per l’influenza culturale in tutto il mondo arabo del suo cinema e dei suoi canali televisivi, nonché per il suo elevato peso politico ed economico-, il prezzo dei generi alimentari è cresciuto sensibilmente già nel 2008, scatenando violente proteste da parte della popolazione civile; solo la prontezza del governo, intervenuto immediatamente per calmierare i prezzi, ha evitato che le sommosse popolari sfociassero in una crisi a livello politico. Ciò non può rappresentare di certo una soluzione definitiva al problema dei costi della produzione agricola e dell’inflazione – il calmieramento dei prezzi non è sostenibile nel medio periodo.

Prima di addentrarsi nell’analisi delle similitudini tra l’arena sociopolitica egiziana e quella tunisina, è forse il caso di spendere qualche parola sulle cosiddette “rivolte del pane”, ovvero quella serie di agitazioni che si ripresentano puntualmente allorché i prezzi dei generi alimentari di base aumentano sensibilmente – avendo questo fenomeno interessato entrambi i paesi. Innanzitutto va sottolineato che le rivolte del pane sono un fenomeno antico e verificatosi in ogni area geografica; in senso lato possono essere definite come i movimenti popolari che avvengono in coincidenza con periodi di carestia. Nell’uso corrente l’espressione “rivolte del pane” include estensivamente le reazioni che scaturiscono in seguito all’aumento del prezzo non solo del grano ma di tutti i principali generi alimentari di prima necessità – zucchero, sale, olio, latte ecc.

Per quanto riguarda le reazioni da parte delle autorità politiche, quest’ultime già in epoca romana si preoccupavano di sedare le agitazioni distribuendo il grano a prezzo calmierato o addirittura gratuito (frumentationes). Ancora oggi questo resta l’espediente cui le élite politiche ricorrono allorché i disordini acquistano una dimensione tale da minacciare la stabilità del loro potere: per fare qualche esempio, tanto Bourguiba (il predecessore di Ben Ali) nel 1983, quanto Mubarak nel 2008, Bouteflika (il presidente algerino al potere dal 1999) il 5 gennaio scorso e Ben Ali alla vigilia della sua fuga (avvenuta il 14 gennaio), si sono preoccupati di annunciare il calmieramento dei prezzi allorché il clima politico nei rispettivi paesi si stava surriscaldando in misura per loro preoccupante. Tali annunci hanno avuto successo, tranne nel caso di Ben Ali la cui autorità era ormai troppo compromessa.

Per un’analisi comparativa tra i moti di piazza che stanno interessando i paesi del Nordafrica e del Medio Oriente, è interessante notare che essi sono tutti, anche se misure diverse, legati alla crisi alimentare mondiale con cui è iniziato il 2011. Sulla consistenza della crisi alimentare mondiale e sul suo carattere globale c’è unanimità di vedute tra gli economisti e osservatori delle relazioni internazionali; l’allineamento viene meno quando si tenta una spiegazione delle cause della crisi. Se è noto che i fenomeni di inflazione sono determinati da un eccesso di domanda rispetto all’offerta, non tutti sono d’accordo sulle cause del fenomeno inflattivo che ha interessato l’indice dei prezzi dei generi alimentari.

Alcuni hanno addotto problemi dal lato dell'offerta (esaurimento delle risorse acquifere e loro distrazione verso le aree urbane); altri hanno messo in risalto il ruolo della speculazione internazionale, che ha ingigantito l'effetto negativo dei primi dati sui raccolti, e quello dell'alto prezzo del petrolio, che ha reso più conveniente investire nei biocarburanti. Altri studi hanno spostato l'attenzione sui fenomeni climatici avversi che hanno colpito Russia, Australia e il continente americano. Volendo sposare questa visione del problema, dato che la produzione di ogni bene agricolo è concentrata in pochi paesi, e che gli effetti del cambiamento climatico si manifesteranno con crescente intensità, la volatilità dei prezzi è da considerarsi un fenomeno ormai radicato e di lungo termine.

Indipendentemente da quali siano le sue cause, quello che rileva rispetto al Nord-Africa e il Medio Oriente, è che l'inflazione legata ai generi alimentari (pari a circa il doppio di quella generale in India, Indonesia e Cina) può mettere a rischio la stabilità politica dei paesi che ne sono colpiti. Tra questi paesi spicca sicuramente l’Egitto.

Il 2011 si annuncia come un momento decisivo per la storia contemporanea egiziana. Sono trascorse poche settimane dall’inizio dell’anno e già si sono verificati eventi che influenzeranno sensibilmente il futuro di questo paese. La stabilità di questo rilevante attore geopolitico è minata dai cronici episodi di violenza a connotazione religiosa (l’ultimo dei quali è la strage dei copti di Alessandria del primo gennaio), dalla probabile secessione di parte del Sudan (cui le vicende egiziane sono strettamente collegate) in seguito al referendum del 15 gennaio, e, soprattutto, dalla intenzione, confermata da diverse fonti, del presidente Mubarak di lasciare il potere dopo quasi trent’anni.

Questi elementi di instabilità potrebbero dar vita a mutamenti radicali simili a quelli registratisi in Tunisia. Dato il peso specifico del paese, le conseguenze di un avvicendamento politico sarebbero ben più rilevanti per tutto il quadro mediorientale. L’Egitto svolge infatti un ruolo chiave all’interno della Lega Araba, di cui è il paese più popoloso e il secondo più ricco in termini di prodotto interno lordo. E’ l’ago della bilancia nel quadro del conflitto israeliano-palestinese, essendo collocato su posizioni favorevoli all’Occidente sin dai tempi degli accordi di Camp David, firmati nel 1979 e culminanti in un trattato di pace israelo-egiziano. Volendo avere una prova dell’importanza dell’Egitto nelle relazioni internazionali, si consideri che se dopo il 1973 non si sono ripetuti conflitti arabo-israeliani, cioè quegli scontri bellici che hanno visto fronteggiarsi da una parte l’esercito israeliano (supportato da alcuni paesi occidentali) e dall’altro gli eserciti di diversi paesi arabi (come avvenuto in occasione della guerra d’indipendenza israeliana del 1948, della guerra scaturita in seguito alla crisi di Suez del 1956, della guerra dei sei giorni del 1967 e della guerra dello Yom Kippur del 1973), ciò si spiega soprattutto con la scelta, operata da Sadat nel ’79 e confermata da Mubarak nel corso degli ultimi trent’anni, di assumere posizioni concilianti nei confronti di Israele (in cambio di generosi aiuti da parte degli Stati Uniti e di una generale e sostanziale approvazione conferita dal’Occidente al regime di Mubarak).

    L’analisi della situazione egiziana non può non partire dal vertice della piramide, Hosni Mubarak. Il ra’is egiziano ha 82 anni, è da trent’anni al potere ed è malato. Inoltre è consapevole del fatto che le elezioni presidenziali in calendario per il 2011, a differenza di quelle che l’hanno confermato al potere nel 1987, nel 1993, nel 1999 e nel 2005 (tra le quali solo quelle del 2005 si sono tenute in un contesto di multipartitismo),  non saranno una formalità e, dovendo porsi seriamente il problema della successione, ha fatto in modo che dalle urne delle elezioni parlamentari egiziane di un mese fa, la fedele cerchia dei suoi uomini  facesse uscire un’assemblea dominata da un virtuale partito unico, capace di gestire senza traumi l’ormai vicino passaggio di poteri. Tutta la comunità internazionale si chiede se lo scettro del potere passerà dal padre Hosni al figlio Gamal, se l’anziano presidente si farà rieleggere, rendendo automatico il subentro di Gamal in caso di morte o impedimento, o ancora se sarà il potente ma fedelissimo generale Omar Suleiman ad emergere.

La risposta ancora non si conosce ma Mubarak ha comunque lanciato un messaggio chiaro, cioè che la successione è affar suo, e non saranno accettate intercessioni da parte di attori esterni al paese. Ha inoltre ricordato agli alleati occidentali che Il Cairo rappresenta un argine irrinunciabile contro i fondamentalismi più o meno qaedisti che si annidano nel Maghreb e nell’Africa sub sahariana. La realpolitik impone effettivamente alle democrazie occidentali di rimettersi alle decisioni di Mubarak.

Il punto debole di Mubarak è dato dal potenziale destabilizzante degli scontri inter-religiosi. I qaedisti vogliono colpire i cristiani simbolo dell’occidente; questo avviene all’interno di una galassia fatta di minoranze corpose ma anche di gruppuscoli fanatizzati che non di rado nella storia egiziana ha innescato spirali distruttive; le lotte interconfessionali – nonostante la tendenziale predisposizione alla convivenza pacifica tra i fedeli delle diverse religioni – potrebbero fare il gioco di chi vuole dar fuoco alle polveri.

Altra fonte di potenziale incertezza per l’Egitto deriva dall’instabilità dei suoi vicini meridionali. Si consideri che l’approvvigionamento idrico di 80 milioni di egiziani dipende dalle acque del Nilo, e che esso, prima di giungere in Egitto, scorre attraverso il Sudan. Finora grazie a una serie di accordi bilaterali con il presidente sudanese Omar Hasan al-Bashir, al Cairo è stato garantito l’approvvigionamento idrico fondamentale per la fiorente agricoltura egiziana, oltre che per i bisogni quotidiani della popolazione. Se, com’è quasi certo, il Sudan del sud otterrà la secessione, le trattative dovranno includere un terzo attore, il Sudan del sud appunto, che potrebbe essere interessato ad avvantaggiare altri paesi rispetto all’Egitto nella corsa al rifornimento delle acque del Nilo, i cui due affluenti si incontrano proprio nella parte meridionale del Sudan.

Tirando le somme, le somiglianze tra l’Egitto di Mubarak e la Tunisia di Ben Ali sono molteplici e rilevanti. Entrambi i paesi sono segnati da regimi longevi e autoritari, con leader brutali ma anagraficamente datati. Lingua (al di là delle differenze dialettali) e religione principali sono la stesse. L’agricoltura e il turismo giocano un ruolo importante nei tessuti economici di entrambi i paesi. Corruzione, poca trasparenza e clientelismo segnano i rapporti lavorativi. I tassi di disoccupazione sono elevati. I giovani costituiscono il gruppo anagrafico più consistente, e la disoccupazione giovanile è alle stelle. La libertà di espressione è del tutto limitata, perché  asservita al potere centrale. Entrambi i paesi sono stati colpiti dalla crisi alimentare mondiale, che ha generato una dolorosa inflazione nei prodotti alimentari basilari.

Certo non mancano le differenze tra i due contesti. L’Egitto è un paese con una popolazione otto volte più numerosa di quella della Tunisia, una superficie dieci volte più estesa e un PIL quasi sei volte più consistente. Non si tratta di semplici dati statistici ma di numeri che hanno delle evidenti e tangibili implicazioni. Il contesto egiziano è molto più complesso: a livello di relazioni internazionali, è legato strettamente all’Occidente, a Israele e al Sudan. A livello religioso, registra la presenza di una forte ed influente minoranza, quella dei cristiani copti (10% della popolazione) – mentre in Tunisia non ci sono minoranze religiose significative. In Egitto sono presenti anche rifugiati palestinesi, iracheni e sudanesi, che interagiscono con le rispettive comunità di provenienza mentre la Tunisia non contiene significati gruppi di rifugiati. L’amministrazione nella Tunisia di Ben Ali era segnata dalla prevalenza della famiglia del presidente e della moglie, che gestiva una serie di rapporti clientelari, mentre in Egitto il tacito patto sociale segnato da una diffusa corruzione si gioca sulla complicità tra l’élite politica, un gruppo di famiglie storicamente facoltose ed influenti e la classe media. In Egitto si registrano anche fenomeni che non appaiono così consistenti in Tunisia, come ad esempio la contrapposizione tra il mondo rurale e quello urbano. La questione palestinese è molto più al centro della vita politica egiziana di quanto lo sia in quella tunisina. L’islamismo estremista militante è influente ed attivo in Egitto, mentre per il momento gioca un ruolo quasi assente in Tunisia.

Per quanto riguarda l’informazione e l’educazione, la popolazione egiziana è però meno istruita di quella tunisina; internet è meno diffuso in Egitto di quanto lo sia in Tunisia; è pur sempre significativo in Tunisia il retaggio della cultura francese, che è giunta sì attraverso il colonialismo, ma ha portato pur sempre ideali quali l’uguaglianza e la giustizia sociale.

Ciononostante l’eco dei recenti avvenimenti tunisini è giunto fino in Egitto ed ha dato coraggio a quanti sperano nel collasso del regime egiziano. Gli egiziani, incollati agli schermi da cui venivano proiettate le immagini da Tunisi, potrebbero aver capito che anche le più insopportabili dittature hanno una fine e che anche per quella egiziana è forse scattato il conto alla rovescia. Non è casuale se negli ultimi giorni si sono ripetute le emulazioni del gesto del tunisino Mohammed Bouazizi: gli Jan Palach dei nostri giorni mirano a colpire la sensibilità delle masse arabe, a diradarne la paura, a rivelare la debolezza dei regimi dittatoriali che opprimono gli arabi. Il fenomeno ha assunto una rilevanza tale che è dovuto intervenire persino il ministro della cultura egiziano Farouk Hosni, colui che si occupa di censurare ogni manifestazione di dissenso lanciata contro il regime di Mubarak. Il ministro-censore ha tentato di ridimensionare la portata di tali eventi, spiegando che in Egitto, a differenza della Tunisia, esiste la libertà d’espressione; a detta del ministro, se si è verificata qualche tensione essa non rappresenta un fenomeno generalizzato bensì un’eccezione nel panorama politico di un paese che sostiene il suo presidente. Ma la realtà è un’altra e anche un’opinione pubblica tradizionalmente rassegnata alla sottomissione come quella egiziana si sta preparando a dimostrarlo.

L’ITALIA DI FRONTE ALLA RIVOLUZIONE TUNISINA: L’ENNESIMA OPPORTUNITA’ MANCATA?

    Le sommosse popolari che hanno recentemente scosso la Tunisia, innescando in questo paese importanti cambiamenti a livello politico-istituzionale, rappresentano uno degli eventi più significativi e potenzialmente gravidi di conseguenze registratisi negli ultimi decenni nell’area del Maghreb. 

   Innanzitutto si consideri che gli avvicendamenti nella detenzione del potere non costituiscono di certo un fatto all’ordine del giorno nel contesto nord-africano – basti ricordare che in Egitto Hosni Mubarak ricopre la carica di presidente dal 1981 e che il colonnello Mu’ammar Gheddafi è guida della rivoluzione libica sin dal 1969. Prima della sua improvvisa interruzione, la presidenza di Zine El-Abidine Ben Ali procedeva nel solco di questa tradizione: assunte le redini del potere nel novembre del 1987 in seguito al colpo di stato “medico” ai danni di Bourguiba, Ben Ali è stato a capo della repubblica presidenziale tunisina fino al 14 gennaio scorso, quando, per evitare guai peggiori, ha abbandonato la carica e il paese ed è riparato in Arabia Saudita. 

    A conferma dell’estrema rilevanza caratterizzante la crisi tunisina, si osservi che le condizioni che hanno portato prima alle proteste, poi a un vero e proprio sollevamento da parte della popolazione civile – aumento repentino e vertiginoso dei prezzi dei generi alimentari e di prima necessità, disoccupazione giovanile, diffusa corruzione, negazione dei più basilari diritti civili e politici – non sono certo una peculiarità del contesto tunisino, bensì possono essere rintracciate anche in altri paesi non distanti geograficamente e culturalmente dalla Tunisia. A detta di alcuni autorevoli osservatori dello scacchiere politico internazionale non è da escludersi che nei prossimi mesi si possano verificare situazioni analoghe in Egitto e in Algeria, come per effetto di una sorta di “effetto domino”.

     Forse per la prima volta nella storia un paese arabo è stato teatro di una rivoluzione popolare. La “rivoluzione di luglio” con cui l’Egitto pose fine all’occupazione britannica, sbarazzandosi di re Faruq, non fu in realtà una rivoluzione ma un colpo di stato dell’esercito. Così si può dire di una serie di “rivoluzioni” avvenute nel mondo arabo, guidate da militari in abiti civili. Nel caso della Rivoluzione del gelsomino – appellativo dato dalla stampa internazionale ai recenti fatti tunisini – il ruolo di protagonista è stato giocato dal popolo.

      Se l’importanza della questione tunisina pare del tutto evidente, molto meno nitide sembrano invece le conseguenze che potrebbero prodursi sul piano regionale. In un contesto tanto complicato e ricco di variabili quanto quello nord-africano e mediorientale, cimentarsi in intricate analisi di scenario è impresa tanto ambiziosa quanto delicata: il rischio che le previsioni siano smentite dal corso degli eventi è troppo elevato. Tanto più se si considera che nemmeno gli effetti dell’allontanamento di Ben Ali dal potere sono facilmente rintracciabili. La fluidità che ha caratterizzato il quadro politico tunisino negli ultimi giorni non permette infatti di destreggiarsi in letture sufficientemente attendibili: dopo la fuga di Ben Ali la carica di presidente supplente, assunta inizialmente dal primo ministro Ghannouchi, è passata successivamente al presidente della camera Mebazaa. Il dibattito politico ruota intorno al problema della formazione di un governo transitorio di unità nazionale che includa le opposizioni e che conduca la Tunisia alle prime elezioni politiche libere che si terranno tra qualche mese. L’arena politica tunisina è segnata dallo scontro tra forze conservatrici e forze progressiste: le prime, corrispondenti a figure di primo piano del Raggruppamento Costituzionale Democratico (RCD), il partito dominante durante il lungo regime di Ben Ali, mirano a mantenere le redini del potere; le seconde sono composte invece da tutti i partiti che per anni si sono battuti contro l’ex presidente e sono supportate da un popolo disposto a pagare a caro prezzo per la propria libertà. Dagli esiti di tale scontro dipendono le sorti della questione tunisina. Se e in quale misura l’allontanamento di Ben Ali determinerà una vera e propria rivoluzione politica in Tunisia è ancora tutto da verificare.

     Date l’incertezza che caratterizza il futuro della Tunisia e l’aleatorietà delle implicazioni della crisi tunisina nel quadro nord-africano e mediorientale, è altresì preferibile concentrarsi su eventi già avvenuti. La Rivoluzione del gelsomino, a dimostrazione della sua estrema rilevanza a livello storico e politico, è state studiata sotto molteplici prospettive da parte della stampa nazionale e internazionale; pare però latitare un’analisi sul comportamento tenuto dall’Italia durante la crisi. 

     Com’è noto, la Tunisia è da sempre un paese vicino all’Italia. Vicino innanzitutto in senso geografico, considerando che l’isola di Pantelleria si trova a soli 70 chilometri al largo della penisola tunisina e che tra questa e la Sicilia non intercorrono più di 100 chilometri. Vicino anche da un punto di vista economico: l’Italia rappresenta il secondo partner commerciale per la Tunisia sia in termini di esportazioni che di importazioni. Vicino infine anche e soprattutto se si osservano le relazioni tra i due paesi da una prospettiva storica: percorrendo a ritroso il corso dei secoli, si noterà che i momenti di contatto sono numerosi e significativi. Per ritrovare tracce consistenti di Tunisia nella nostra storia non è necessario risalire alle dominazioni arabe che hanno caratterizzato il Medioevo della Sicilia e di altre regioni meridionali, o addirittura alle guerre puniche combattute durante l’epoca repubblicana della Roma antica. E’ sufficiente fermarsi al XIX secolo, quando si recò in Tunisia un numero talmente vasto di italiani, che tale comunità di emigranti assunse un peso economico e sociale determinante in molti settori della vita sociale del paese. 

      L’italiano divenne addirittura la lingua franca nel settore del commercio e in quello della politica e della diplomazia. Ai primi italiani, commercianti e professionisti giunti all’inizio dell’’800 in cerca di nuove opportunità, si aggiunsero poi esuli politici in fuga dalla repressione scatenata dagli stati italiani durante il processo di unificazione del nostro paese; sul finire del secolo, in seguito alle difficoltà economiche e alla crisi sociale venutasi a creare nelle regioni meridionali del nuovo Stato, si riversarono in Tunisia decine di migliaia di italiani, soprattutto siciliani e sardi, che emigrarono in gran numero tanto che il consolato italiano contò, nei primissimi anni del ‘900, più di 80.000 connazionali residenti. La presenza degli italiani fu determinante, infatti, nel processo di modernizzazione culturale ed economica del paese.

      Le vicende storiche consumatesi nel corso del XX secolo hanno portato a una sensibile riduzione della presenza italiana in Tunisia; ciò non toglie che i circa 3.000 italiani che attualmente vivono in Tunisia - di cui circa 900 appartengono alla vecchia comunità - rappresentano la seconda minoranza presente sul suolo tunisino dopo quella francese. Il tratto caratterizzante l’esperienza dalla comunità italiana è che essa, sin dagli ultimi anni dell’’800, si è inserita fra i tunisini colonizzati e i francesi colonizzatori. La convivenza fra gruppi di diversa provenienza culturale ha fatto sì che si sviluppasse fra gli italiani un modo di vivere particolare, poiché questa comunità ha impregnato la cultura locale e, pur mantenendo la propria specificità, ha saputo accogliere e far proprie istanze culturali appartenenti alle altre comunità presenti sul territorio tunisino. Da qui deriva la grande ascendenza che il nostro paese ancor’oggi produce sulla Tunisia, testimoniata dalle statistiche economiche sugli scambi bilaterali, dalla forte presenza di imprese italiane e dall’attivismo della comunità di italiani residenti in Tunisia.

    Considerata la consistenza delle relazioni tra i due paesi, risulta logico chiedersi quale sia stata la valutazione data dal governo italiano agli importanti eventi recentemente verificatisi in Tunisia, quali le prese di posizione, quali le eventuali reazioni a livello politico. A nostro modo di vedere l’Italia non sta cogliendo una serie di occasioni di portata storica: quella di rivedere e correggere la propria posizione rispetto a un regime deprecabile come quello di Ben Alì; quella di rimediare all’errore commesso nel dare un sostegno saldo e duraturo a questo regime - alla cui genesi l’Italia ha probabilmente contribuito - riscattandosi di fronte al popolo tunisino; quella di dare una svolta alla nostra politica estera, contrassegnata da due anni a questa parte da una serie di iniziative infruttuose, da un allineamento su posizioni di convenienza e da una certa indolenza; e infine quella, mai banale, di schierarsi dalla parte della giustizia e dei diritti dei popoli.

     Tali valutazioni derivano da un’analisi delle dichiarazioni, dei comunicati, e delle interviste recentemente concesse del nostro ministro degli esteri Franco Frattini. Va innanzitutto premesso che Frattini si è sempre espresso a favore di Ben Ali, definendo in diverse occasioni “eccellenti” i rapporti intrattenuti tra l’ex presidente e il nostro governo. Ciò desta diverse perplessità, se si considera la vocazione fortemente antidemocratica del regime di Ben Alì. Nei suoi 23 anni di governo egli si è preoccupato di soffocare ogni opposizione, aumentando il controllo sui media e sui partiti politici rivali e rifiutando una qualsiasi riforma politica in senso democratico. La Tunisia appariva come una repubblica democratica solo sulla carta, come risulta evidente se si considera che le consultazioni elettorali presidenziali non hanno mai prodotto un suffragio inferiore all’89% a favore di Ben Ali. Molte sparizioni, omicidi e casi di tortura sono stati segnalati dalle più autorevoli organizzazioni per i diritti umani.

     A titolo esemplificativo della posizione ufficiale del nostro governo rispetto alla crisi tunisina, si considerano alcune prese di posizione emesse ufficialmente dalla Farnesina e dal suo vertice, il ministro degli esteri. Di fatto Frattini ha emesso dichiarazioni a sostegno di Ben Alì fino al giorno della fuga del dittatore dalla Tunisia. Ancora il 12 gennaio, due giorni prima dell’allontanamento dal potere dell’ormai ex dittatore, il nostro ministro degli esteri, pur essendo sotto gli occhi di tutto il mondo le terribili violenze perpetrate ai danni della popolazione civile, se da un lato sottolineava l’esigenza di “condannare senza se e senza ma ogni forma di violenza contro civili innocenti”, dall’altro sosteneva con convinzione la necessità di “sostenere un governo come quello della Tunisia che ha pagato un prezzo di sangue per il terrorismo”. In pratica, da una parte Frattini rimbrottava Ben Ali, dall’altro ne tesseva le lodi per l’impegno profuso nella lotta ai movimenti islamisti negli anni ’90 (poco importa che questi siano appoggiati da una parte consistente della popolazione e che la loro repressione sia avvenuta ricorrendo a mezzi illeciti). Un atteggiamento che lascia basiti se si pensa alle decine di civili caduti nell’ultimo mese sotto i colpi della polizia del dittatore tunisino, che tra l’altro non si è fatto sfuggire l’occasione di ordinare ai suoi di sparare alla folla. Lascia basiti perché l’Italia, dal dopoguerra ad oggi, ha sempre aderito ai più significativi accordi internazionali in tema di diritti umani, come ad esempio la Dichiarazione universale dei diritti umani del ’48, la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici del ’66, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea firmata a Nizza nel 2000 e così via. L’impegno nel campo della salvaguardia dei diritti umani, che sulla carta appare come la stella polare della nostra politica estera, viene messo in secondo piano allorché si tratta di ottenere vantaggi e facilitazioni – come quelli offerti da Ben Ali, che per anni ha garantito un concreto e tangibile supporto nella lotta all’immigrazione clandestina, una delle crociate del nostro governo.

      Solo all’indomani della fuga di Ben Ali Frattini tentava fuori tempo massimo di correggere il tiro, dichiarando: “sincero ed amichevole appello va alle diverse istituzioni del paese e a tutte le componenti della società tunisine alla calma, alla moderazione e al dialogo, per ricercare attraverso quest'ultimo la via d'uscita dalla difficile situazione venutasi a creare in questi giorni. L'Italia rispetta pienamente la sovranità del popolo tunisino a cui é particolarmente legato da una profonda amicizia e umana vicinanza. L'Italia sosterrà, come sempre, le scelte del popolo tunisino che auspica fortemente vadano sulla strada della democrazia e della pacifica convivenza”. 
 
       Il rinsavimento di Frattini risulta, oltre che tardivo, interessato e perciò poco   credibile. Per quanto riguarda la tempistica, anche volendo sposare la logica del tutto pragmatica che ha caratterizzato l’approccio italiano, risulta evidente la lentezza di riflessi dimostrata dalla nostra diplomazia, che non è stata in grado di intuire, nonostante non ne mancassero affatto le premesse, il cambiamento ai vertici del potere in Tunisia.

     Oltre a ciò, è innegabile che la Farnesina si sia spesa in qualche ponderazione a sostegno del popolo tunisino solo quando ha compreso che in Tunisia si era verificato un cambiamento istituzionale. Poiché il prossimo leader non sarà un dittatore privo di legittimazione democratica e facilmente malleabile a seconda degli interessi italiani, bensì scaturirà della volontà popolare espressa attraverso consultazioni elettorali, il nostro ministero degli esteri ha ben pensato che forse era il caso di adoperarsi in qualche manifestazione di solidarietà rispetto al popolo artefice della cosiddetta rivoluzione del gelsomino. Difficile credere che dichiarazioni tanto tardive quanto poco spontanee possano sgomberare dalle ombre del passato recente il terreno delle relazioni con il prossimo leader tunisino.

    Per comprendere le cause dell’atteggiamento italiano, è necessario richiamare le condizioni storiche che hanno permesso al regime di Ben Ali di formarsi e di durare così a lungo. Ben Ali ha preso il potere il 7 novembre del 1987; al suo colpo di stato hanno contribuito non poco alcune ingerenze esterne. In un momento storico in cui la nuova ondata di sentimenti islamici si affermava con vigore nel Nord Africa, soprattutto in Algeria (dove i movimenti islamisti avrebbero dato vita a una lunga e sanguinosa guerra civile), le minacce di repressione brutale di Bourguiba, il predecessore di Ben Ali, facevano temere che si esacerbasse lo scontro fra i movimenti politici di matrice islamica e i regimi dell'Algeria e della stessa Tunisia, che si professava laica e filo-occidentale.

       Ciò avrebbe avuto delle conseguenze negative su tutta l’area, oltre che sui paesi della sponda nord del Mediterraneo più vicini al Maghreb, come la Francia e l’Italia. Fu in questo clima che, come successivamente confermato dagli stessi vertici dei Servizi segreti italiani, il governo di Roma si impegnò a creare le basi per l’ascesa al potere di Ben Ali, vedendo in lui un uomo d'ordine. Il curriculum di Ben Ali come presidente è, come si è detto, caratterizzato dal quasi totale annientamento delle forze di opposizione politica e civile interna. Nonostante il presunto processo di riforma magnificato dal dittatore, ciò che avrebbe dovuto portare a una democratizzazione del paese, la Tunisia è scesa agli ultimi posti nelle classifiche mondiali che misurano le libertà politiche e civili. Certo, durante questi anni Tunisi ha anche conosciuto buoni livelli di crescita economica e sviluppo sociale. Ma allo stesso tempo Ben Ali non si è veramente preoccupato di accompagnare questi risultati parzialmente positivi in una riforma politica e istituzionale.

  Il regime sopravviveva anche grazie alla complicità e all’alleanza con l’Occidente. Soprattutto da parte dell’ex madrepatria Francia e dell’Italia: insieme, solo Parigi e Roma rappresentano quasi il 40% del volume totale del commercio tunisino. Senza dimenticare il ruolo degli gli Stati Uniti: dopo l’attentato dell’11 settembre e la paranoia islamofobica nel quadro della guerra al terrorismo, la Tunisia, campione di laicismo e vincitrice nella lotta contro l’islamismo attivista, non poteva non essere un alleato strategico nell’area.

      In questo modo Ben Ali è riuscito a mantenere il potere per più di vent’anni. Negli anni del regime è riuscito a costruire una serie di relazioni di tipo clientelare, che assicuravano a lui stesso la permanenza al potere e a chi si affiliava al partito posti di lavoro e incarichi nella burocrazia pubblica - almeno fin quando la gestione del mercato del lavoro non è divenuta impossibile, come accaduto ultimamente. Questo è uno dei più grandi motivi che ha portato la popolazione a ribellarsi: non una semplice “rivolta del pane”, bensì una rivoluzione volta a rovesciare l’impianto personalistico e clientelare generato da Ben Ali e dai suoi uomini.

       Questa è la natura di un regime con il quale l’Italia ha sempre mantenuto ottimi rapporti. Anche l’ambasciatore americano a Tunisi, come emerso dai cabli rivelati da WikiLeaks, ha definito quello di Ben Ali come un “regime sclerotico e corrotto”, in balia della famiglia “quasi mafiosa” dell’eterno presidente Ben Ali. Le rivelazioni targate WikiLeaks hanno confermato inoltre che l’Italia non ha mai smesso di foraggiare il regime di Ben Ali – atteggiamento condiviso dalla Francia ma osteggiato da Gran Bretagna e Germania-, in cambio di concessioni in campo energetico e del sostegno nella lotta contro l’immigrazione clandestina. 

     La Farnesina ha giustificato l’amicizia con Ben Ali adducendo che il suo regime si è sempre adoperato a fondo nella lotta al fondamentalismo islamico: giustificazione che appare del tutto strumentale, semplicemente perché Ben Ali ha usato nel corso dei suoi 23 anni al potere gli stessi mezzi cui ricorrono i movimenti terroristici (con l’unica differenza che vi è potuto ricorrere impunemente e legalmente). Evitiamo di chiederci in quale misura l’immigrazione clandestina e il terrorismo costituiscano minacce per la sicurezza del nostro paese: la risposta è forse troppo passibile di parzialità di natura politica. Ammesso che esse costituiscano dei seri pericoli per la sicurezza dell’Italia, ciò ci legittima ad appoggiare qualunque leader si unisca al nostro paese nella lotta al terrorismo e all’immigrazione clandestina, indipendentemente dai mezzi da egli utilizzati nell’esercizio del potere?

     In ultima istanza, l’atteggiamento dell’Italia rispetto alla Rivoluzione del gelsomino getta delle ombre inquietanti sull’operato del nostro governo in politica estera: chi ritiene che l’Italia si spenda in certe dichiarazioni di principio (sui diritti umani, sulla democrazia ecc.) per puro opportunismo (cioè per non perdere l’allineamento dalle posizioni di Unione Europea e Stati Uniti), e che invece concentri la maggior parte delle proprie energie nel tentativo di strappare concessioni e agevolazioni – specie a livello energetico - a regimi corrotti e antidemocratici come quello di Gheddafi in Libia e di Putin/Medvedev in Russia, a scapito degli impegni assunti e propagandati nel campo dei diritti umani e delle libertà fondamentali, ha un altro fondato argomento a sostegno della propria convinzione.